La nuova vita, in una città lontana.
La morte di lui, un giorno, passata come l’ultima notizia, proprio alla fine del telegiornale.
Mi laureai in giurisprudenza a ventitré anni.
Sposai Ermanno a venticinque anni dopo un breve fidanzamento.
Lui era intenerito dalla mia goffaggine nel vestirmi, truccarmi, occuparmi della casa. Non poteva immaginare che per me fiorire come donna significava fare una scelta che, nella mia confusione, non avevo la forza di fare. Non lo sapevo nemmeno io.
La prima volta che mi sentii male mi stavo arrampicando su di una scala per pulire i vetri di casa. Quel capogiro aveva fatto pensare ad una gravidanza, ma bambini non ne arrivarono mai, vennero solo altri capogiri e una stanchezza sempre più profonda.
Ermanno mi toccava con gentilezza, mi cercava nel letto, la sera, con quella domanda muta nelle mani, nelle dita lunghe con le unghie ben curate.
Io ero sempre più distante, mio marito lo sentiva, per ritrovarmi cercava una strada entrando nel mio corpo rigido, lontano, che lo faceva ritrarre avvilito in un sonno solitario.
Divenni magrissima, mi tagliai i capelli fin sopra la nuca, mi si scurì il tono di voce. Ermanno era disorientato. Cominciai ad indossare il suo profumo, la sua biancheria intima. Un giorno mio marito mi trovò vestita con un suo doppio petto, giacca e cravatta, davanti allo specchio, delirante.
Dopo il mio primo ricovero sembravo rinata. Prendevo le medicine, andavo dallo psichiatra tre volte a settimana, mi ero iscritta ad un corso d’inglese.
Ermanno mi aveva regalato dei vestiti freschi, era estate, uno con dei bei fiori rossi, un altro blu e uno giallo con il colletto bianco. Quando mi guardavo allo specchio mi sembrava di vedere il disegno di un bambino.
Qualche volta dimenticavo di prendere le medicine tanto mi sentivo al sicuro.
Fino a quando smisi del tutto di prenderle.
Mi feci ricrescere i capelli, cominciai a truccarmi pesantemente e ad indossare abiti sempre più provocanti. Avevo comprato e nascosto delle parrucche.
Di giorno me ne andavo per strada, lontano dal mio quartiere, nei locali, a caccia di un’umanità estranea, non importa quanto sordida purché disposta ad assistere alle mie prove d’identità.
La sera era sempre più difficile tornare da Ermanno e presentargli Enrica, la sua Enrica, che si sfilacciava come un maglione di lana, con il disegno originale cancellato.
Stavo sempre peggio. Ero sempre più confusa.
Al secondo ricovero mio marito se ne andò: mi lasciò la casa, un assegno mensile, ma non voleva più vedermi.
Mi sembrò un altro mondo quello che trovai fuori dall’ospedale dopo il secondo ricovero, e soprattutto, in quel mondo, non c’era più Ermanno.
Lo cercai, volevo scusarmi, spiegargli, volevo che tornasse. Non riuscii mai più a parlare con lui, l’unica traccia di quell’amore era incisa nell’assegno mensile che, puntualmente, mi veniva versato.
Mia madre e le mie sorelle passavano a trovarmi. Chiacchieravamo un pò, si assicuravano che prendessi le medicine.
Ero avida di quelle presenze, dei loro racconti minimi, delle bollette che aumentavano, dei conti della scuola per i bambini, del cappellino nuovo costato una fortuna, della pila scarica dell’orologio in cucina.
Imparavo i loro gesti, le intonazioni e gli sguardi, il modo di camminare e di sorridere, di tendere la mano o di abbracciare. Volevo appartenergli, essere come loro: una donna.
Ermanno mi mancava dolorosamente, provavo vergogna per quello che di me aveva visto, mi sentivo in colpa per aver fatto fallire il nostro matrimonio, per il dolore che gli avevo procurato.
Tutti i giorni dispari andavo dallo psichiatra, ma prima passavo in biblioteca, mi piaceva quel luogo, lo chiamavo “ Il pianeta delle farfalle” perché era silenzioso, abitato solo dai fruscii delle pagine girate, come lievi battiti di ali.
Avevo bisogno di quel silenzio, di quella solitudine; in realtà mi nascondevo, perché più di tutto, ogni giorno, temevo d’incontrare Ermanno con un’altra donna.
Quando accadde, smisi di uscire.
Ero convinta che il mondo intero mi fosse ostile, mi additasse, mi sentivo ridicola, desideravo solo lasciarmi inghiottire da un silenzio assoluto, odiavo anche il suono delle mie lacrime.
Mi chiusi in una solitudine ermetica, nella quale perfino mia madre riusciva ad entrare raramente e solo per pochi minuti.
All’improvviso, in quel silenzio, cominciai a sentire la voce di mio padre.
Mi diceva che io ero come lui, gli appartenevo, non c’era posto per me, per noi, nel mondo, nessuno avrebbe potuto capirmi e apprezzarmi: solo lui lo aveva fatto e avrebbe continuato a farlo, se solo avesse potuto.
Non volevo stare con lui, avevo paura, come quando avevo otto anni.
Per sfuggire a quella voce che mi sembrava uscisse dai muri, dal soffitto, dal pavimento, da qualunque superficie vuota, io urlavo, urlava la mia casa disordinata, il letto sempre disfatto, le pentole abbandonate alla rinfusa tra l’acquaio e il tavolo della cucina.
Ricoprivo tutte le superfici vuote con tutto quanto mi riusciva di spargervi sopra: medicine, bicchieri, posate, vestiti, scarpe, libri, coperte, biglietti, fogli, scontrini, occhiali, cappelli, penne, sciarpe, foulard.
Affannosamente, ogni giorno, ogni giorno con un’urgenza più violenta, costruivo la mia barricata, e per farlo svuotavo scaffali, cassetti, armadi, mensole, il cesto dei panni, qualunque cosa, qualunque esile velo potesse attutire quella voce, renderne irriconoscibile il timbro, azzerarne l’altezza, affievolirne l’intensità.
Svuotavo la mia casa e rimettevo tutte le tessere del puzzle della mia esistenza in gioco.
Mia madre venne a vivere con me, divenne uno scudo tra me e il mondo, me e l’ennesimo ricovero. Decise infine di portarmi via da lì, vendette la nostra casa in città.
Tornammo al nostro paese, Solerìa, questa scheggia di mondo, e dopo aver affittato la grande casa dei nonni, cedette i locali dell’albergo, ormai chiuso, lasciatole in eredità dal mio nonno barchetta che da due anni viveva tra le sue amate stelle. Con il denaro ricavato comprò una casa più piccola per me e per lei, avanzò una discreta somma di denaro, avevamo di che vivere per un po’ di tempo.
Lei mi nutriva, mi pettinava i capelli, mi lavava, mi dava le medicine. E soprattutto, aspettava.
Albeggiava, quella mattina, quando mi trovò fuori dalla porta di casa, in camicia da notte: spazzavo le foglie cadute sul vialetto.
“Enrica fa freddo, ti prego, torna dentro” mi esortò.
Rientrai, docile, placata.
Trascorremmo tutto il giorno e quello seguente e quello seguente ancora a riordinare, buttare, pulire.
Levigato, lucente, divenne quello che era stato sordido e confuso.
Stavo sempre meglio. Mi cercai un lavoro e il primo che trovai lo accogliemmo con gioia.
Ogni sera tornavo a casa accompagnata dalla scia luminosa dello sguardo di mia madre.