“Cammina dritto senza distrazioni. Non dar retta a nessuno. Non farti imbambolare dagli amichetti e vieni subito a casa”.

Finito il catechismo scendevo subito verso il centro, percorrendo la strada dritta e coperta dalle fronde degli olmi, fino ad arrivare a casa. Era un percorso piacevole, specialmente in primavera, poiché le chiome rinverdivano con una energia strabiliante accendendo l’ombra di riflessi verdi e gialli. Lungo il percorso c’era il lungo muro delle suore, ed ogni tanto s’apriva in esso un varco, un cancelletto o una piccola finestra chiusa da un'inferriata, che mostravano un minuscolo pezzo di quel grande parco tranquillo, dove vedevo passeggiare a volte piccole figure intente nella lettura o a far giardinaggio.
Poi attraversavo un’altra via di quel parco ridente e scendevo gli scalini che portavano al vialone di casa e che già schiamazzava dei rumori tipici del centro.
Da quando mio padre ci aveva lasciati per un brutto incidente in auto, mia madre si raccomandava continuamente e finché non mi vedeva tornare a casa e non mi sentiva fisicamente percorrere il breve corridoio, non trovava pace. Soltanto quando mi vedeva sulla soglia della cucina il suo sguardo triste si allargava per un solo attimo in un sorriso. Era una cosa fugace. Non sorrideva più.

Un pomeriggio però avvenne qualcosa di diverso. Dopo una trentina di passi dall’oratorio mi aspettava un cane. Io avevo paura dei cani ma questo era diverso. Era un pastore tedesco massiccio, dal muso grosso e il naso nero. Aveva gli occhi grandi e si mostrava docile. Mi aspettava seduto sopra la soglia del cinema dei Salesiani e non appena fui passato cominciò a trotterellare a qualche metro da me, alla mia destra.
Lo fece per tutto il percorso, fino a quando, poco prima che arrivassi al portone di casa, non svoltò in una strada laterale, scomparendo alla mia vista.

A questa cosa non pensai minimamente. La mattina se ne andò tra la scuola e parte del pomeriggio per i compiti. Poi salendo verso il convento mi tornò in mente. Notai che sulla soglia non c’era; ma alla mia uscita, alla fine del catechismo era là, seduto dritto, che pareva sorridesse, con la lingua penzoloni come dopo aver fatto una lunga corsa.
Allora feci una cosa per cui mia madre mi avrebbe sgridato a morte.
Mi avvicinai a piccoli passi, tenendo la mano allungata verso di lui, come a fargli capire che volevo solo accarezzarlo. Lui rimaneva immobile e non cambiava atteggiamento. Quando fui più da presso mi piegai sulle ginocchia e cominciai ad accarezzarlo sulla fronte. Lui socchiudeva gli occhi ogni volta che la mia mano si appoggiava sulla sua testa e abbassava cautamente le orecchie dritte e regali, per rialzarle subito dopo. Poi d’improvviso si staccò: fece tre o quattro passetti e poi si fermò a guardarmi. Io camminai verso di lui e lui, prontamente, riprese la discesa trotterellando.
“Ho capito! Ho capito… vado a casa!”
E quindi per il consueto percorso mi fu di fianco, qualche metro distante, fino a quando non entrai dentro il portone di casa. Mi girai e non c’era più.

 

“Sai mamma? Tutte le volte che esco dai Salesiani c’è un cane che mi viene dietro!”
“Che cane?”
“Un cane grosso. Bello! Uguale a quello del Commissario REX!”
“E che fa?”
“Niente… mi guarda. Facciamo una passeggiata insieme fino a casa. Poi se ne va verso casa di zia Federica.”
“Ma da quando?”
“Da tre giorni.”
“Domani ti vengo a riprendere, che lo voglio vedere!”

Così fu. Mia madre era preoccupata ma nemmeno tanto. Alla fine il cane rappresentava una specie di scorta lungo quel percorso che ora lei vedeva come una minaccia, da quando papà non era più con noi. Ogni cosa ora le pareva insormontabile. A volte passava ore distesa sul letto, nella semi oscurità, cercando di riposare. Ma la sentivo agitarsi senza prendere sonno. Ora ogni cosa la metteva in ansia e le dava preoccupazione. La sua bellezza era sfiorita. La pelle sotto gli occhi era diventata rossastra, come per il troppo pianto. Io cercavo di darle meno pensiero possibile. Per quando la scuola fosse dura, cercavo di dare il meglio di me. Ora ero io l’unico uomo di casa.

Quel pomeriggio mamma era già dentro l’androne ad aspettarmi. Mi congedai in fretta dai miei amici che insistevano perché andassi a far polvere sul campo di terra calciando palloni mezzi sgonfi. La presi per mano e facemmo per uscire.
“L’hai visto?”
“No… non c’era sulla soglia. Vedrai che lo hanno ritrovato i padroni. E’ meglio così: forse lo avevano smarrito!”
Ma appena usciti lo vedemmo: impettito e sorridente (o almeno mi pareva). Guardava nella nostra direzione e pareva aspettasse.
Mamma lasciò la mia mano e si diresse verso di lui. Prima si fermò, leggermente intimorita. Lui la guardava dal basso verso l’alto e piano piano i suoi occhi si fecero languidi, come se aspettasse di essere coccolato. Vidi mia madre avvicinarsi ancora e infine abbassarsi verso di lui, finalmente toccandolo. Lo accarezzò a lungo sul fianco, facendo passare le dita nel suo morbido pelo.
“Vieni!” mi disse.
“Accarezzalo così… piano!” e lo facemmo in due, mentre lui guardava davanti a sé, non noi, respirando piano, del tutto tranquillo.
Con mio enorme stupore la mamma lo baciò sulla fronte e si alzò.

“Andiamo!” disse con la voce piegata da una sofferenza che non voleva fare vedere.
Ma io mi accorsi, camminando, che rivoli di pianto silente le scendevano lungo le gote.
Fu l’ultima volta che lo vedemmo.
Ma da quella volta, ho sempre avuto con me un cane; si che potessi rivedere, nei loro occhi infinitamente buoni, la stessa bontà di quello che incontrai per un breve tempo della mia vita, ma che è rimasto sempre dentro di me.

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