Non ho mai amato l’inverno;
né il suo gelo, né il suo freddo. 
Era per me motivo di grande insoddisfazione, al mattino, alzarmi e indossare le fredde camicie, le cravatte asfissianti, le giacche astringenti, e dirigermi verso quel lavoro che fondamentalmente neanche avevo scelto.
D’estate, almeno, riuscivo a godere del bel tempo durante il tragitto; ma vivendo in un luogo freddo, maldicevo più le ore in cui ero sveglio, che quelle in cui dormivo.
Il percorso era sempre lo stesso: 
garage, strada diritta, ufficio. 
Ufficio, strada diritta, garage. 
Ero un giovane uomo di bell’aspetto, socialmente accettato e benestante. 
Avevo molti amici, una famiglia emotivamente indipendente e ragazze occasionali, che mi aiutavano a soddisfare l’istinto animale quando faceva capolinea.
Non volevo bene a nessuno, profondamente. E nessuno voleva bene me. 
Ero stimato. Ma l’affetto…beh, quello non c’era. 
Di questa esistenza patinata vi fu la fine in un mattino di Febbraio, quando l’auto che avevo tanto desiderato, uscì fuori dalla corsia che mi spettava, costringendomi a una morte veloce ed indolore. 
Di quei pochi istanti non ricordo quasi nulla, non saprei raccontarvi, in modo sincero, cosa sia morire.
L’unica cosa che so per certo, è che dentro di me, qualcosa mi fece comprendere che ero immensamente dispiaciuto di questa fine: teoricamente, non volevo morire. 
Anche se la mia, non era vita. 

Mi risvegliai in un’altra dimensione, in un luogo a me sconosciuto, e fui sorpreso di aver trascinato con me i dolori dell’incidente. Mi faceva particolarmente male un braccio, camminavo in modo alquanto curioso, indossavo vestiti molto più colorati e caldi di quelli appartenenti al mio basico armadio; 
gli odori erano più fitti al mio naso, i sapori più supplicanti di natura e non di pasti precotti; 
Mi scoprii avere anche una bella voce, con una vista super acuta,  e due occhi marroni profondi e brillanti di un’intelligenza che nell’altra vita sentivo venir meno ogni giorno di più.
Ciò che rimase immutata fu la mia voglia di calore; il freddo continuava a non piacermi.
E quello che più mi sembrò surreale, fu la sensazione che provai intensamente per la prima volta nel mio cuore: ero felice. 

Avevo preso questa strana abitudine di saltellare un po’ qui, un po’ lì.
Inoltre, avevo sviluppato una gran paura delle altezze. Ci pensate? un tipo come me, spesso in giro su qualsiasi aereo, improvvisamente aveva paura anche di percorrere una piccola rampa di scale.
Mi abituai presto a quell’idea, perché altre cose catturarono la mia curiosità.
Si, esatto. Mi riscoprii curioso. 
In pochi secondi mi concentrai su una bella voce femminile, che ondeggiava tra le pareti di quella che capii essere subito la mia nuova casa. 
Non riuscivo a captare da quale stanza provenisse, ma ne sentivo la connessione quasi vitale. 
L’armoniosità di quel suono mi richiamava come un serpente al suo flauto, e una sensazione di calore si irradiava in me ogni volta che le note di quelle corde vocali si infrangevano sul mio naso. 
I raggi di luce che mi colsero in volto furono un balsamo ancora più forte, che misti al suo suono mi fecero sprofondare in un vertiginoso stato di benessere.

Fu nel momento in cui mi girai verso la porta, che la vidi. 
Era una figura femminile poco delineata, più un’ombra che si dirigeva verso di me. Ma non mi suscitava alcun tipo di paura. 
Con la sua bella melodia mi si avvicinò accarezzandomi sulla fronte, e io restai a guardarla come incantato. 
Non avevo la minima idea di chi fosse, ma quella sua carezza mi fece dimenticare ogni passato dolore. 
Mi accorsi che sul volto mi si formò un sorriso, e ricambiai la carezza spingendo la mia fronte sul suo dito. 
Nessuno mai mi aveva toccato in quel modo. 
La guardai felice di quel che stava accadendo, e lei mi disse qualcosa che dai toni sembrò molto tenero, ma non riuscivo a capire la sua lingua. 
Era la sua musica a definire il mio benessere, non le sue parole. 
La vedevo allontanarsi ed avvicinarsi in più prese, e ogni volta che andava via, dentro me si creava un vuoto che subito veniva colmato non appena l’ombra si aggirava ancora attorno alla mia figura. 
Dai miei occhi brillanti mi ritrovai ad osservarla con grande devozione; l’imprinting avuto mi fece subito pensare che quella potesse essere senza ombra di dubbio, mia madre. 
Non riuscivo a realizzare, però, la motivazione per la quale io provassi quel sentimento.
Mia madre era rimasta nel mondo dei vivi, stava piangendo la mia morte. 
Povera donna, ero così dispiaciuto di questo. 

Decisi di appollaiarmi in un angolo della stanza, fissando dalla finestra quegli alberi che tanto emanavano profumo di mimose e di primavera in arrivo. Riuscivo a sentire ogni odore a distanza di metri, e questo mi aiutò a scrollare via il pensiero del male che avevo lasciato alle spalle; dopotutto, capii che non potevo rimediare al danno; dovevo accettare il dolore.

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