Il postino diede ad Anna la lettera di Kai sul pianerottolo. Lei era ancora in camicia da notte e scapigliata e si ritrovò a tenere quell’oggetto in mano. Aveva paura di aprirla.

 

La lettera era una fessura nel muro della loro vita. Kai scriveva di ciò che non poteva dirle a voce. Parlava di una malattia che avanzava, di una stanchezza che gli toglieva la forza di prendere telefono e contattare la persona che amava. Ma soprattutto diceva: “Non possiamo vederci ma sappi che tu sei sempre qui con me.” E chiudeva con una richiesta gentile, quasi pudica: “Non spegnere la tua luce stasera perchè questa notte è così buia. Se puoi, resta con me a guardare le stelle anche se da due finestre distanti.”

 

Anna tenne la lettera tra le dita come si trattiene una reliquia, sapendo che le mani tremavano non solo per freddo ma per la consapevolezza che, se Kai fosse davvero malato, la loro possibilità di potersi rivedere sarebbe stata puramente illusoria.

Anna rimase seduta sul bordo del letto, la lettera di Kai stretta tra le dita come un fragile petalo appassito. Le parole danzavano davanti ai suoi occhi, ma non riusciva a leggerle di nuovo. “Non spegnere la tua luce perchè questa notte è così buia.” Quelle frasi, scritte con una calligrafia tremante, erano l’ultimo sussurro di un uomo che aveva combattuto contro il buio per troppo tempo. Lei sapeva che non avrebbe potuto rispondere, non con una telefonata, non con un incontro. La loro vita era sempre stata una danza sul filo del rasoio, e ora quel filo si stava spezzando.

 

I giorni successivi furono un turbine di silenzi assordanti. Anna continuò la sua routine, fingendo di essere intatta, ma ogni mattina, guardandosi allo specchio, vedeva i contorni della sua anima sbiadire. Non osava contattare Marco, l’amico comune che aveva inviato quella prima notifica; sapeva che qualsiasi mossa avrebbe potuto esporre il loro segreto, e la paura di distruggere altre vite – quella di Claudia, dei familiari di Kai – la paralizzava. Invece, si limitava a osservare la pioggia che continuava a cadere fuori dalla finestra, una pioggia che non lavava via nulla, ma solo rendeva tutto più freddo e opaco.

 

Una settimana dopo, arrivò un’altra notifica sul suo cellulare, questa volta da un numero sconosciuto. Era Claudia. “Kai è peggiorato. Non c’è più tempo.” Le parole erano concise, prive di emozione, come se anche lei fosse esausta dal peso di quella lotta. Anna sentì il mondo inclinarsi. Non poté fare altro che sedersi, il telefono che le scottava la mano, mentre un’onda di rimpianto la travolgeva. Vent’anni di incontri rubati, di baci nascosti, di parole sussurrate al buio – tutto ridotto a un messaggio impersonale.

 

Quella sera, Anna guidò verso il lungofiume, il posto dove tutto era iniziato. Il Bar Castello era chiuso, le luci spente, e l’acqua del fiume scorreva gonfia e scura sotto la pioggia incessante. Si fermò lì, sola, con il vento che le sferzava i capelli, e pianse per la prima volta. Non per sé, ma per Kai, per l’uomo che aveva amato in silenzio, che aveva condiviso con lei frammenti di anima nei rari momenti di libertà. Ricordò la loro ultima notte insieme, le risate, i baci appassionati, il modo in cui lui le aveva detto “Ti amo” come se fosse una confessione rubata al destino. Quell'incontro era stato un addio.

 

Due giorni dopo, la notizia arrivò come un colpo finale: Kai era morto. La malattia lo aveva portato via nel cuore della notte. Anna lesse l’annuncio sul giornale online, un trafiletto anonimo tra le notizie del giorno, e sentì il suo mondo crollare. Non andò al suo funerale, non voleva essere vista da nessuno. Le sembrò paradossale firmare un biglietto di condoglianze preparato dai suoi colleghi.

“Anna, ma tu te lo ricordi Kai?”

 

Da allora Anna ha un suo rituale prima di andare a letto: accende la luce sul comodino e aspetta che questa rischiari la stanza buia. Poi guarda fuori e con i suoi occhi azzurri va a cercare le stelle più luminose del firmamento. 

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