Quando mio padre al mattino usciva, io andavo in spiaggia con i ragazzi del quartiere. Mi piaceva il mare. Andavamo in un posto soprannominato “La scogliera dei tuffi”. Era uno scoglio da cui quei bambini si slanciavano con una veemenza ingenua e sfrontata, corpi magri consegnati al vuoto, in un’ansia di vita, di potere e perfino di bellezza. Eravamo bambini soli e ognuno di noi urlava come poteva per incidere nel mondo la sua presenza. Lì, su quella scogliera, con gli spruzzi d’acqua a tintinnarmi sul viso, qualche volta sono stato felice. Ormai ero maschio ventiquattr’ore al giorno, come quando impari una lingua straniera perché sei andato a vivere in un’altra città, dopo un po’ di tempo pensi e persino sogni in quella lingua. Io ero maschio. Per essere uguale a loro mi ero costruita un piccolo rigonfiamento di plastilina, lo attaccavo ad uno slip stretto stretto, poi indossavo il costume da bagno. Non sapevo nemmeno cosa fosse, a me bastava essere come loro.
Lui, la sera, dopo cena, pretendeva d’insegnarmi cose da maschi. Per esempio a fare a pugni. Mi colpiva, mi provocava, se non reagivo colpiva più forte: “Non ti lascio segni, so come fare… difenditi, sei un vigliacco forse? I vigliacchi sono destinati a prenderle per tutta la vita, che schifo… colpiscimi, fammi vedere chi comanda qui…”.
Parlava. Lo vedevo sfinirsi di parole, soffocate, sussurrate, sibilate, oppure rabbiose, sguaiate, oscene. Parole, parole. Mi consegnò, mio padre, in quei tre mesi, una elefantiasi di suoni sgraziati, un berciare convulso, una tappezzeria di parole da sovrapporre alla realtà come pellicole ermetiche che finirono per aderire alla mia pelle, alla mia mente, alla mia volontà: mi convinsi che quella vita era l’unica che potessi vivere, in realtà ero solo confusa e terrorizzata da quell’uomo che mi sembrava così potente. Parole. Ho vissuto gran parte della mia vita impegnata a raschiare via la logorrea che in quei tre mesi mio padre mi aveva fatto scorrere addosso come cemento liquido, per murarmi con lui nella sua follia, incurante della sacralità del mio bozzolo e del mio futuro corpo di farfalla.
Il mio migliore amico della “scogliera” si chiamava Niccolò:aveva gli occhi verdi e una strana passione: collezionava tappi di bottiglia. Un giorno mi portò a casa sua. I genitori erano al lavoro, gestivano un bar del quartiere. Mi mostrò la sua collezione; possedeva tante boccettine di vetro e vasetti di plastica, sono dello yogurt, mi spiegò. Le teneva raccolte in una scatola di cartone. Giocammo tutto il pomeriggio con i tappi. Niccolò aveva inventato tanti modi per utilizzarli, tanti giochi, aveva scritto tutto in un quaderno con la copertina rossa. Ogni gioco aveva un nome e sotto era descritto il suo procedimento. Ne inventai uno anch’io quel pomeriggio. Il mio amico mi chiese di non fare parola con nessuno su quanto mi aveva rivelato. Io giurai e lui mi regalò un tappo di sughero su cui scrisse il suo nome. Non avevo mai posseduto niente di così prezioso.
Io amavo Niccolò, con tutto il mio confuso essere, come bambino: lui era mio amico e complice; come bambina: lui era Niccolò e il mio desiderio furioso di abbracciarlo.
Una sera tornai a casa un po’ più tardi del solito, avevo aiutato Niccolò al bar, avevamo asciugato una montagna di bicchieri.
Mio padre mi aspettava sulla porta di casa. Tremava. Gli stavo sfuggendo. Non poteva permetterselo.
Non dissi una parola. Nemmeno quando mi schiaffeggiò. Nemmeno quando mi perquisì. Nemmeno quando trovò il mio tappo e lo usò per chiudere la sua bottiglia di vino. Fu una scenata lunga. Quando mi ingiunse finalmente di andarmene a letto, mi lanciò l’ultima minaccia nella schiena: non mi avrebbe più permesso di uscire, saremmo rimasti entrambi chiusi lì fino a quando gli fosse piaciuto.
Quella notte, pensai ad una cosa soltanto, come se fosse un fuoco vivo con cui tenere lontano le belve delle mie paure, ferme lì, davanti al mio letto pronte a sbranarmi. Rivolevo il mio tappo.
Quando lo sentii russare, nel lettino accanto al mio, mi alzai, lentamente, la luce nelle scale del palazzo di fronte diluiva il buio della notte. Ritornai in cucina: lo vidi. Lo svitai piano piano, lo sciacquai sotto un rivolo d’acqua, lo asciugai strusciandolo sulle mie guance. Tornai a letto. Lo nascosi nella federa del cuscino, dopo averlo baciato.
Mia madre arrivò da noi dopo qualche giorno, all’improvviso: voleva farci una sorpresa, disse.
Vedere la nostra casa e me stessa riflessa nel suo sguardo fu un doloroso risveglio per me.
Il sorriso di plastica muto, delle mie bambole, ora che lo vedevo sbucare dalla scatola in cui lui ammassava tutti miei vestiti e giochi da bambina ogni volta che mia madre se ne andava, aveva qualcosa di sinistro, come la bocca spalancata di quello scatolone che sembrava potesse inghiottirmi da un momento all’altro.
Mi rifugiai nel mio lettino. Da lì la sentivo urlare contro la sporcizia in cui vivevamo, le bugie di mio padre circa i suoi successi lavorativi, (le bastò poco per farlo confessare) e poi c’era il contenuto misterioso di quello scatolone, lasciato aperto dalla ormai presunta immunità di cui mio padre credeva di godere per i suoi misfatti: perché i miei vestiti e le mie bambole erano malamente riposti là dentro? Nessuna risposta. Il silenzio di mio padre frantumò ai miei occhi tutte le sue ragioni: pazzo bugiardo gli ripeteva mia madre, provai una vergogna profonda, avevo creduto ad un bugiardo, avevo fatto delle cose terribili, questo era certo. Non sapevo ancora bene quali fossero i miei peccati, ma come avrei potuto raccontare a mia madre tutto quello che avevo vissuto in quei tre mesi, avrebbe chiamato pazza e bugiarda anche me. Io avevo appena “perso” mio padre, non potevo perdere anche lei.
Me ne stavo zitta, sotto le lenzuola. Sarebbe passato molto tempo prima che trovassi le parole per raccontarle l’accaduto, e in quel momento mia madre non insistette per sapere, non ce la fece a varcare quella soglia.
“Alzati Enrica, torniamo a casa”. Era l’alba.
“E lui?”
“Papà ci raggiungerà appena possibile. Vieni. Il treno parte alle sette, dobbiamo sbrigarci”.
Mia madre fu rapida: valigie, taxi, stazione. Era così bella, alta, le caviglie sottili, gli occhi scuri scuri, magra in vita, un po’ più grossa sulle anche, era una donna fiera, profumata di odori aspri e freschi. Quella mattina sembrava un animale ferito, aveva un’espressione che oggi so nominare: orrore, rimpianto. Alla bambina che ero, sembrò un angelo vendicatore venuto a salvarla.
Partii. Mi illusi di poter lasciare lì Enrico, con Niccolò, con il mio tappo, di cui invece, ancora oggi, ho l’orma sulle guance, e il sapore sulla bocca.
L’estate stava finendo. Nei pochi giorni che precedettero il mio rientro a scuola, mia mamma non mi lasciava mai. Andavamo a fare lunghe passeggiate, oppure andavamo in città a fare acquisti. Ogni sera, dopo cena, quando le mie sorelle erano già a letto, lei mi interrogava dolcemente, cercava di far cadere il discorso, con noncuranza, sull’argomento del periodo trascorso con mio padre. Mentivo. Chiedevo solo: tornerà? Dov’è adesso?
Mia madre una sera mi disse chiaramente che lui non sarebbe tornato, si erano separati, m’interrogò per l’ultima volta per accertarsi che non avessi subito violenza e poi sembrò tranquillizzarsi: non era successo niente, mio padre era solo un egoista, immaturo, da tenere lontano, ma non un mostro. Ecco. Non un mostro. Non ne parlammo più fino al giorno in cui, dopo un anno, venni a sapere dalla mia sorella maggiore, che lui era malato. Forse sarebbe morto. Avevo nove anni.
Non morì. Anzi. Mia madre, una sera, era appena tornata dal suo lavoro all’albergo del nonno, ci raccolse tutte attorno al tavolo del soggiorno e cominciò a parlare.
“Vostro padre ha bisogno di aiuto. E’ molto malato, non può lavorare, ora ha perso anche la casa, la casa della nonna: ve la ricordate? I fratelli hanno venduto tutto, avevano dei debiti e lui è rimasto praticamente per strada. Dobbiamo accoglierlo per qualche tempo da noi, fino a quando non riuscirà a sistemarsi definitivamente, non voglio che la gente dica che siete figlie di un barbone. Però voi siete grandi e io non posso decidere da sola. Se non siete d’accordo la cosa non si farà”.
Parlò per prima Giuditta, la maggiore.
“Dove dormirà?”
“Nella camera degli ospiti”.
“Non è per sempre vero?” chiese Ornella. Aveva un vestito blu con il colletto bianco, i capelli ricci, lunghi, gli occhi piccoli con le ciglia piegate, la bocca morbida e la pelle rosa da bambina. Ornella era la più piccola, aveva sette anni, solo sei quando lui se n’era andato, non se lo ricordava bene, per lei era poco più di uno sconosciuto.
Mia madre mi stava guardando. Non osava chiedere. Non osava non chiedere. Non dissi nulla. Ero rassegnata. Speravo solo di sentirle dire ho scherzato… non è vero niente… Non lo disse.
La prima sera che cenò con noi, lui, teneva la testa bassa, era molto dimagrito. Ne fui contenta, sembrava un altro; potei riposare un poco in questa illusione ottica.
Il tempo riprese a scorrere dopo essere stato con il fiato sospeso, anche lui incredulo, come me, di rivedere quell’uomo seduto a cena con noi, come un padre qualunque alla fine di una giornata di lavoro. Riprese a scorrere il tempo, incurante di noi, di lui, che se ne stava quasi sempre in camera sua, quella degli ospiti, e compariva come un’ombra inquietante, come un presagio di sciagura, a pranzo e a cena per occupare un posto che non gli spettava.
La nonna all’improvviso morì. Silenziosamente, come aveva vissuto.
Dopo qualche mese mia madre pregò il nonno di prenderlo a lavorare con lui.
“Qualunque cosa, per tenerlo impegnato”.
“Spero di non pentirmene”.
“Un tempo ti piaceva, papà, me lo raccomandavi come marito” sferzante.
“Ho commesso un errore Olga, non ho saputo proteggere te, vorrei almeno proteggere le bambine”.
“Alle bambine penso io, tu levalo un po’ da dentro casa, dagli uno stipendio, ha una piccola pensione, guadagnando qualcosa potrebbe ridiventare autonomo e togliersi dai piedi. Definitivamente”.
Lo disse davanti a noi, incapace di controllarsi. Quel giorno, una rabbia rappresa e gelida precipitò sul suo volto, come un drappo nero staccatosi all’improvviso dalle quinte di un proscenio.
Provai un brivido profondo di gioia a sentire l’intensità di quell’odio condiviso.