"Veloce, più veloce” quelle parole mi rimbombavano in testa mentre il coltello batteva e ribatteva contro l’asse facendo a pezzetti prima pomodori, poi carciofini, prezzemolo, olive.. “Muoversi, muoversi!”. Quel suo urlare mi dava sui nervi, sempre nei suoi candidi vestiti, con il suo lungo cappello bianco, era sempre impeccabile. Mentre noi tuttofare sembrava fossimo stati ad una qualche battaglia di cibo.

Io non facevo altro che tagliare, pelare, stendere, controllare e tutto questo quando non lavavo o pulivo. I cuochi componevano e preparavano i piatti con gli ultimi ritocchi ma era lo chef che usciva insieme al cameriere per prendersi tutti i meriti. Quanto lo odiavo, oh se lo odiavo, quei suoi baffetti cosparsi di quella patina che gli dava una lucentezza quasi irreale, quei suoi riccioli neri che scendevano lungo le tempie, quei suoi occhietti da ratto, odiavo tutto di lui.

Anche quella sera stava volgendo al termine, credo mancassero solo un paio di piatti, poi tutti se ne sarebbero andati e saremmo rimasti solo io e Jean a lavare i piatti e a riordinare la cucina per il giorno dopo.

“Ci si vede domani, e vedete di essere puntuali” le ultime parole dello chef prima di scomparire dietro la porta scrostata che dava sul retro del ristorante.

Immersi le mani nell’acqua e inizia a lavare, Jean iniziò a riordinare gli avanzi.

“Senti poi ci fermiamo da Fancy’s per una birra?”

“Si ci sto” mi rispose.

Spesso e volentieri uscivamo due/tre ore dopo che gli altri se n’erano andati. Era uno dei più grandi ristoranti di Parigi e per il giorno dopo tutto doveva essere perfetto.

Mi tolsi il grembiule, Jean si stava già cambiando, a me non importava spesso e volentieri andavo via com’ero arrivato. Prendemmo un paio di pagnotte poi uscimmo, chiusi a chiave la porta, e mi voltai. Era un lungo vicolo cieco, lastricato di sanpietrini, con tre o quattro grandi bidoni proprio di fronte alla porta. Arrivammo in fondo, svoltammo a destra, il Fancy’s era proprio in fondo alla strada. Era un grande bar, dentro si poteva trovare ogni genere di persona, dall’impiegato medio, al legionario, alla prostituta, al cocainomane, alla vedova, all’immigrato, insomma come se qualcuno avesse preso Parigi, ne avesse estratto la sua essenza e l’avesse gettata in quel bar.

Le luci erano soffuse, e un leggero riverbero viola-azzurro si stagliava contro il soffitto, come un’aurora boreale.

“I signori desiderano?” oggi ci era andata bene, comparve quella graziosa cameriera sulla ventina, capelli biondi raccolti in una coda, con la pelle di pesca in quel vestitito a scacchi, con un grembiule sgualcito dinanzi.

“Due bicchieri di vino rosso grazie.. il più economico che avete” le rispose Jean ammiccando.

Io non avevo la forza di rispondere, la mie testa sembrava sostenuta da due invisibili e gelide mani e la mia mente vagava libera e indomabile. Cosa mi costringeva a seguire quella monotonia, a seguire il flusso, a sottostare agli ordini, insomma chi mi impediva in quell’istante di alzarmi nel bel mezzo del bar e fare fuori qualcuno? Sapevo che stavo andando fuori di testa e l’alcol di certo non aiutava, più di una volta avevo rischiato la vita e avevo quasi perso il lavoro. Avevo tanta voglia di spaccare tutto, mi sembrava di essere un animale selvatico imprigionato in una gabbia, nato e cresciuto in cattività ma consapevole che là fuori, al di là delle sbarre, c’era la terra alla quale apparteneva.

La cameriera tornò e mi fece tornare in me, Jean non aveva che occhi che per lei.

“Ci si vede domani, Jean.”

“Ma che fai, siamo appena arrivati”

“Non mi sento bene ci vediamo domani, ma non passare prima di mezzogiorno.”

“Va bene a domani allora.”

Probabilmente la sua serata sarebbe stata meglio della mia, e si sarebbe scopato quella ragazzina. Presi la metro e scesi alla mia fermata. Abitavo in una delle zone più malfamate di Parigi, in uno di quei grigi palazzoni di  quelle strette e contorte viuzze che si intersecavano e mescolavano tra di loro, in quell’insieme di razze ed etnie, ma dopotutto era proprio per questo che amavo quel formicaio.

L’ascensore non funzionava, credo non avesse mai funzionato, presi le scale, arrivai al decimo piano, alla mia porta, entrai. Mi distesi sul letto. Di nuovo la mia testa riprese il suo moto vorticoso come una tempesta in mare aperto fatta di onde ed uragani, poi un’esplosione fece cessare tutto, calma piatta.

Ora sapevo che dovevo fare. Per evadere dalla gabbia c’era una sola via d’uscita.

Mi alzai, corsi giù dalle scale, uscii in strada. Mi diressi correndo verso la strada che costeggiava la Senna. Attraversai il ponte, e mi trovai di fronte ad una serie di complessi abitativi tutti uguali illuminati dalla luce lunare. Passai davanti ad una decina, poi mi infilai in una vietta larga poco più di un metro e mezzo, tra due palazzoni, che dava su una piazzetta circolare. L’attraversai di corsa, e mi fermai di fronte ad un palazzo poco più basso degli altri, si era quello giusto. Una decina di gradini, che si dirigevano verso il basso arrivavano alla porta principale.

Bussai, due colpi. “Jerome, sono io.”

Dei rumori di chiavistello e cigolii provenirono da dentro. Poi si aprii. Un grosso ragazzone nero mi aprii. “Entra”. Altri ragazzi di colore stavano dentro quella oscura stanza, un intenso odore di marijuana mi colpì, poi alzai la testa, alcuni stavano fumando, altri giocavano a poker altri ancora stavano lucidando degli AK.

“Che ti serve?”

“Ho bisogno di una pistola, dammi la migliore che hai, bastano due colpi.”

”Seguimi.”

Attraversammo la stanza, oltrepassammo una porta coperta da una pesante tenda viola. Non si vedeva nulla, poi Gerome accese un piccolo neon. Non era altro che un magazzino, le scaffalature occupavano l’intera stanza, e su di esse vi erano scatole di ogni forma e dimensione. Scomparve per un po', poi tornò con un qualcosa avvolto nel cellofan. Era la mia pistola.

“Sono quattrocento. Prendere o lasciare.”

Non mi intendevo di armi da fuoco, per questo non feci molte domande e accettai. Tirai fuori due banconote da 200 che Gerome osservò molto scrupolosamente, dopodiché mi riaccompagnò alla porta e si congedò.

Stetti ad osservare la pistola per un po’ tra le mie mani, un cosi piccolo strumento poteva fare del male a così tante persone, controllai il caricatore, aveva ancora tutti e sei i colpi, ne lasciai due gli altri li lasciai cadere a terra.

Poi mi avviai. Scesi in una fermata della metro, la aspettai, senza fretta. Feci un paio di coincidenze, poi tornai di nuovo all’aria aperta. Ero incredibilmente calmo. La pistola infilata nel retro dei pantaloni. Arrivai di fronte ad una villetta indipendente, suonai. Dovevano essere le 3 di notte, ma sapevo mi avrebbe risposto...Dovetti suonare un paio di volte prima di sentire un “Si?”

“Sono Claude, volevo...”

“Razza di coglione... Ti sembra il momento opportuno per le tue stronzate?”

“Mi dispiace capo, ma è importante.”

“Vaffanculo! Entra tanto ormai sono sveglio.”

Provavo un senso di tranquillità estrema, oltrepassai il cancello, e arrivai alla porta che era già semi aperta. Se ne stava seduto su una poltrona in soggiorno, in pigiama e vestaglia impeccabili come era sempre la sua divisa da lavoro.

“Muoviti, dimmi che vuoi, che voglio tornare a dormire.”

Sapevo che viveva da solo, sua moglie l’aveva lasciato qualche anno addietro portandosi via il suo unico figlio.

“Inginocchiati.”

“Cosa? Ti è dato di volta il cervello?”

“Ho detto...Inginocchiati!”

Estrassi la pistola, questo lo aiutò a capire. Iniziò a mugolare, mi avvicinai lentamente, le lacrime gli scendevano copiosamente lungo le guance. Guardai la pistola, guardai la sua testa, poi gliel’avvicinai alla tempia e premetti. Ci fu uno scoppio. Un ‘esplosione di sangue.  Cadde a terra.

Ora non faceva così paura, i suoi vestiti erano sporchi proprio come i nostri quando lavoravamo, e i suoi baffetti sembravo ora smorti, spenti.

Per qualche secondo mi sentii Dio, avevo deciso io se far continuare o porre fine alla vita di un essere umano, poi portai la pistola ora verso la mia tempia e feci fuoco. Fui felice.. ero evaso.

 

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