I
La stanza adibita a bisca clandestina puzza spaventosamente di fumo. Guardo attentamente i miei avversari al tavolo da poker, i loro occhi vitrei, allucinati; sarebbero disposti a vendere la propria madre in un bordello per arraffare un piatto abbastanza ricco da poter vivere tranquillamente per qualche mese, salvo non rigiocarselo l’indomani per poi perderlo.
Quello che non sanno è che sono destinati, tutti e tre, alla sconfitta. Mi sono bastate due semplici mani di poker all’italiana per accorgermi del loro gioco, delle smorfie disegnate sui loro volti che tradiscono la presenza o meno di buone carte. Facile, come rubare le caramelle ad un bambino.
So anche che quello seduto di fianco a me, l’organizzatore della giocata, ha portato un mazzo truccato e probabilmente qualche carta la nasconde nella manica della sua giacca; di sicuro si giocherebbe anche la casa, senza sospettare minimamente che la perderà. Io conosco il suo gioco sporco, lui non può nemmeno immaginare il mio.
Sono un baro e ho cominciato a giocare la mia partita con l’umanità, meschina e violenta, da quel caldissimo pomeriggio di non so più quanti anni fa. Ricordo ancora gli occhi del mio avversario di allora. Quella volta persi miseramente e la cosa che mi fece più male fu il suo sguardo; non si trattava di una manifestazione di scherno o di sarcasmo nei miei confronti, ma di pietà, quella pietà che ti penetra fin dentro le ossa e che ti lascia un brivido freddo che non puoi fare altro che portarti dentro come un marchio, a vita.
Improvvisamente inizio sentire anch’io un briciolo di pietà nei confronti dei miei avversari di adesso; vorrei ricordare loro la poesia Tom Beatty di E.L. Masters: “e la vita vi concede settant’anni per giocare/ perché se non riuscite a vincere in settant’anni/ allora non vincerete mai più./ Perciò, se perdete, uscite dalla stanza, uscite quando l’ora è arrivata”.
E’ quello che vorrei fare io, ma non posso.
- Scala reale – dico interrompendo i miei pensieri e battendo il poker d’assi del mio vicino di posto.
Una decina di minuti dopo sono in strada, con in tasca la mia grossa vincita di centoventicinquemila euro.
II
Rientro nella stanza d’albergo a pochi passi dalla Piazza Rossa.
Mosca non è poi così cambiata dall’ultima volta in cui vi sono stato. Mi accorgo immediatamente che qualcosa non va: la Bibbia che stavo leggendo poco prima di andare a giocare non è più sul comodino, dove l’avevo lasciata, ma sul tavolo, accanto al televisore. Qualcuno è entrato nella mia camera. Mi affretto ad uscire, ma nel corridoio vengo agguantato da due energumeni con pistola in pugno.
- Grida aiuto e sei un uomo morto. -
- Non avevo intenzione di farlo. -
- Devi venire con noi. -
Detto questo mi conducono fuori dall’albergo. Sono proprio curioso di sapere dove mi porteranno. Non ho paura. Nessuno può farmi del male. Ogni volta che mi sono trovato in pericolo di vita, c’è sempre stato un evento, una coincidenza apparentemente fortuita che mi ha salvato la pelle.
Qualcuno potrebbe pensare che questa sia una fortuna, ma per me non lo è. Vorrei tanto che uno di questi due mi piantasse una pallottola in fronte, così da finirla una volta per tutte. Ma ciò non accadrà: almeno per ora e per chissà quanto tempo.
La macchina si ferma. Mi fanno scendere. Ci ritroviamo in aeroporto. Siamo passati da un’entrata secondaria, dove di certo i controlli della polizia non sono così stretti. Un mini-jet ci attende. Dopo esserci sistemati all’interno del velivolo partiamo quasi subito.
-Adesso è possibile sapere dove diavolo stiamo andando? -
-A Tashkent – risponde uno dei due energumeni.
-Non sono mai stato in Uzbekistan. -
III
Dopo poche ore mi ritrovo nel palazzo governativo di Tashkent. Le pareti presentano arazzi pregiati e delle croste che rivelano un gusto pacchiano. Tutt’attorno consolle e oggetti laccati in oro.
Karimov mi attende nella sala presidenziale. Non so molto di lui. Da ciò che ho letto sui giornali sono a conoscenza delle sue esperienze da doppiogiochista nel KGB e, in seguito, della guerra civile con l’URSS per l’indipendenza uzbeka, ottenuta dopo la caduta del Muro.
- Benvenuto. Mi scuso sin da adesso per il modo in cui è stato condotto qui, ma non ho potuto farne a meno per questioni di sicurezza. -
- Posso sapere il motivo di tutto ciò? Non è molto piacevole venire prelevati nel cuore della notte dalla propria stanza d’albergo. -
- Le faccio i miei complimenti per il suo russo, è a dir poco impeccabile: niente male per un italiano. -
- Non ha risposto alla mia domanda. -
- Quanta fretta! Va bene, la accontento subito. So tutto di lei, signor Asvero, sempre che questo sia il suo vero nome, dal momento che per spostarsi da un luogo all’altro utilizza sempre passaporti di nazionalità differenti. Mi risulta che la sua presenza sia sgradita nella maggior parte dei casinò di mezzo mondo. E’un abile mentalista, prestigiatore, sedicente mago e, cosa che più mi interessa, eccellente baro al tavolo da gioco. Mi interrompa se sbaglio. -
- Vada avanti. -
- Ho bisogno di lei, la porterò in giro per il mondo, nei migliori casinò e tavoli da gioco. Lei mi insegnerà a barare. -
- Non insegno a nessuno i miei trucchi. -
- Non ha scelta. In tal caso morirà. -
- Magari fosse vero. Perché proprio io? -
- Perché lei, in base alle informazioni di cui dispongo, è il migliore. E poi la maggior parte di miei avversari si avvale dei trucchi di abili bari e non mi va di perdere. Col suo aiuto, signor Asvero, farò grandi cose. -
- Ma lei è già ricco. -
- Che considerazione banale. Non è una questione di soldi, ma del vizio che ti accompagna per il cammino e di cui non puoi fare a meno. E poi gli uomini che non hanno vizi hanno poche virtù. -
- Curioso. Un feroce dittatore che cita Abramo Lincoln. Una volta fui suo ospite a colazione. -
- Non ho molta voglia di scherzare. Accetta o no? -