Ci eravamo messi d’accordo per il pomeriggio all’ora di apertura dell’oratorio, lì fuori all’angolo; era il nostro posto, tra il campanile e l’ingresso, fuori dalla visuale di chi passava sul marciapiede.
Appena fuori casa, dopo i primi passi ben decisi, le gambe incominciarono ad essere legnose, le mani sudaticce e l’assenza di saliva denunciavano l’ansia e mi infastidivano a tal punto che mi domandavo perché mai la natura andasse sempre contro i desideri del momento; l’iperidrosi doveva essere in bocca, che ora invece era asciutta, la lingua faticava a sgusciare tra i denti e a breve sarebbe comparsa la solita ridicola afonia. Mi ero abituato a fare respiri profondi per dare più ossigeno al cervello, il che avrebbe dovuto diminuire la tensione e rilassare i muscoli addominali, che sentivo rigidi e contratti. Niente da fare, forse il caldo del pomeriggio di fine luglio, forse le elaborate supposizioni di fallimento che andavo a costruire, tutto questo produceva rivoli di sudore sui palmi delle mani; e che figura avrei fatto a lasciare la sgradevole impronta su quella rotondità che più volte avevo immaginato?
Dovevo assolutamente distrarmi e pensare al desiderio di appoggiare con delicatezza i polpastrelli su quella superficie morbida e vellutata, e comunque resistente; toccare e seguire con voluttà quelle cuciture fino ad arrivare a quell’apertura di pochi centimetri, nascosta da lacci e bandelle, solo in un primo momento regolari e simmetriche, ma che in seguito all’uso sarebbero diventate frastagliate e falsamente sinuose; pronte a colpire non solo la tua fantasia ma a segnarti le parti più esposte del tuo corpo.
Allora sì, avrei potuto mostrare agli  amici di essere diventato adulto, quei segni avrebbero allontanatola paura degli incontri, dei movimenti forti e improvvisi per evitare, colpire, indirizzare e provare finalmente dolore e piacere al tempo stesso.  
Arrivato all’angolo Giancarlo non c’era; mi diressi nervosamente verso l’ingresso e poi tornai sui miei passi. Mi appoggiavo al muro del campanile, fatto di pietre ruvide regolarmente squadrate, di solito in ombra efresche, e con le mani dietro la schiena cercavo refrigerio per quelle estremità che ormai bollivano.
Comparve all’improvviso, come se si fosse materializzato di fronte a me; dietro di lui, quasi nascosta, la sorella, alta come noi seppur più giovane di un paio d’anni;  jeans e maglietta di una misura in meno lasciavano poco spazio all’immaginazione, occhi neri e capigliatura scura a caschetto, una Valentina di Crepax in formato naturale; soggetto ed oggetto per lefantasie erotiche di tutti noi, che ci ritenevamo già navigati solo per “sentito dire” o per aver posseduto quei giornaletti che, al momento opportuno, si reggevano con una mano sola.
Scostato Giancarlo di quel tanto che mi permettesse di curiosare in controluce il profilo di quelle rotondità che si alternavano con piacevole armonia prima sul davanti o poi sul dietro, concentrai la mia attenzione su un sacco di velluto gonfio e tondeggiante che Milena reggeva con evidente disinteresse. Sfilai dalla tasca il portafoglio e allungai a Giancarlo il biglietto da diecimila lire pattuite, Milena mi consegnò il sacco che subito dopo restituii trattenendo il frutto dei miei desideri: il pallone di vero cuoio a trentadue sezioni con la linguetta della camera d’aria che spuntava dalla fessura, tenuta chiusa dai lacci in tinta, regolarmente infilati nelle asole del cuoio, stretti al punto giusto; le cuciture nere dei pentagoni conferivano eleganza alla mia prima sfera magica.
 

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