Le giornate scorrevano tutte uguali

Lavoravo presso il Ministero come impiegato, seduto a un tavolo molto vecchio, forse appartenuto a Robespierre.

Sommerso da pacchi enormi di carta, il cui odore di umidità’  provocava convulsioni, circondato dalla gente, ma visto come un perfetto sconosciuto, la sera ritornavo nella mia piccola casa, all’ultimo piano di un vecchio palazzo di fine ottocento.

La sua precarietà era pari alla sua età. Muri fatiscenti e  scale di marmo ormai lise dal tempo. In effetti ,se avessi preso in velocità un gradino, sarei decollato come un razzo con destinazione scantinato. I gatti della mia vicina, ben 11, erano dappertutto e schivarli per poter arrivare alla porta era un po’ come penetrare nella giungla con il machete. Altre volte, nessuno mi si parava davanti. Alcune volte mi domandavo se fossi l’unico abitante di quel palazzo. Ero forse un marziano, ma questo era il mio mondo, sconosciuto di giorno e invisibile di notte. Non prendevo sonno e amavo spesso uscire in compagnia del mio unico amico Hemingway, il mio cane. Un misto di più razze che a guardarlo non capivi quale era il didietro e quale il davanti. Ma lui era mio, taciturno e fedele.

La notte parigina era fatta di rumori e di odori. I turchi cuocevano panini con odori di cipolla penetranti, ragazzetti urlanti correvano per strada incuranti dell’ora calciando una lattina e le luci delle automobili creavano effetti di luce disorientanti. Proprio per quello, il mio giro si indirizzava sempre verso la Senna, il fiume mi rasserenava. Lo spazio mi liberava e l'aria fresca della notte mi riempiva i polmoni.

Come se quella fonte di vita, quel suo scorrere, mi avesse potuto portare via da tutto quello che vivevo e provavo. Il lungo Senna era speciale Sembrava una città nella città o meglio una faccia speculare della parte bella con quella meno bella, ma vera. Le abitazioni cambiavano; erano di cartone pressato per poter affrontare la notte. I vasi di fiori non erano su balconi, ma esposti su improvvisati davanzali fatti di contenitori di uova. Le margherite erano sempre in vista nella casa della signora Edith. Il lungo Senna ne era pieno. Le porte d’ingresso erano lastre di pvc ondulato e scolorito. I fuochi erano invece presenti dovunque, era il ritrovo dove scambiare qualche chiacchiera o più semplicemente riscaldarsi dal freddo della sera, bevendo magari qualche improponibile liquore.

Hemingway, quella sera era molto strano, agitato. Non capivo proprio cosa avesse. Fatto sta che liberatosi dal guinzaglio corse verso il fondo del fiume, fino ad arrivare a non vederlo più, come se il buio lo avesse inghiottito. Nonostante il mio peso non esattamente forma, accennai una corsa ma il cuore mi balzò fine alle orecchie e dovetti prendere fiato prima di ripartire alla sua ricerca. Era passata più di un’ora dalla sua scomparsa, ma ecco che il suo abbaiare inconfondibile, un misto tra un latrato e l’avvio di un vecchio camion diesel, indirizzò il mio cammino verso una “casa” del lungo Senna. Arrivato lì davanti, il cane smise di abbaiare. L’abitazione non era diversa dalle altre di cartone che la circondavano, ma aveva qualcosa che ti colpiva. La facciata era dipinta con tanti colori misti tra di loro, come se qualcuno avesse trovato dei rimasugli di pittura e fatto un pastone unico (anche se la cosa non mi meravigliava) e in quel contesto la casa arcobaleno spiccava fra tutte. Una luce fioca si intravedeva dal di fuori. Timidamente e con garbo bussai all’uscio, per poter chiedere la restituzione di Hemingway. La porta si apri lentamente ed il volto che mi comparve provocò in me’ delle sensazioni che non provavo da talmente tanti anni che non riuscivo a capacitarmene. La donna che mi aprì aveva modi gentili, chiedendomi chi fossi e cosa volessi. Spiegai che il mio cane era scappato e che pensavo che potesse essersi rifugiato da lei. Lei non rispose, si spostò ancora un attimo aumentando l’apertura della porta, ed era lì. Comodamente seduto sul letto di questa donna, come se la conoscesse da sempre. Lo strano è che provavo la stessa cosa. Quel suo volto, cosi ancora fresco nonostante la sua condizione di vita, quelle sue labbra carnose, ed i suoi occhi color cielo che ricordavano come era bella la vita. Mi invitò ad entrare ed io accettai come un automa. Posso offrirle una bevanda calda? Mi chiese. Accettai. Cominciammo a dialogare come mai avevo fatto, con i colleghi diurni ci scambiavamo il buongiorno e buonasera e basta. Con lei era tutto diverso, mi sentivo capito e lei anche. I suoi modi garbati erano pari a quelli di una donna regale, e la sua capacità di trasmettere amore non era quantificabile. La sua vita era stata segnata da esperienze negative. Gli domandai anche come potesse essere finita a vivere sul lungo Senna, non  rispose. Mi mostrò una foto in bianco e nero che risaliva a 5 anni prima.

Era in abito da sposa in compagnia di un uomo, il marito naturalmente, anche se la mia mente si rifiutava di vederlo come tale.

Era il mio unico amore, disse. La cosa più importante della mia vita. Un giorno tornando a casa prima del solito, lo trovai a letto con un’altra donna. Il mondo mi crollò addosso. Niente aveva più senso. Scappai da quella casa con i soli abiti che indossavo ed iniziai a vagabondare per Parigi, fino a quando esausta non trovai riparo sul lungo Senna. Qui Jean Jacques mi accolse a sé, aiutandomi i primi tempi. Mi aiutò anche a costruire questa abitazione e da allora non mi sono più spostata. Dimmi di te invece. Beh anch’io pur vivendo dalla altra parte, sono emarginato. La mia vita era cominciata con un bel matrimonio, entrambi che lavoravamo, due belle figlie, una casa decorosa.

Poi un giorno tutto il colore che avevamo nel nostro rapporto è diventato grigio. Le cose si sono man man spente e da due amanti eravamo diventati due sconosciuti. Un giorno tornai a casa. I cassetti erano svuotati e nessuna traccia di lei ne delle bambine.

Anche a me crollò  il mondo addosso. Mi resi conto che si era gettato tutto via e non avevo fatto nulla. Da allora tutto cambiò,  compreso la casa che cambiai non potendola permettermela e cercandone una più modesta. Un uomo e una donna divisi dai loro affetti, dove l’amore aveva giocato brutti scherzi. Si presero la mano e le parole non ebbero più senso. I lori occhi si soffermarono sui particolari dei loro volti. Volti segnati, ma cosi intensi che rallentavano il tempo che loro circondava. Le loro labbra si avvicinarono con discrezione e una profonda paura, che fu’ però superata un istante dopo. I loro corpi si cercarono. Hemingway si rintanò sotto il tavolo e la luce fioca della candela con una pressione ebbe termine.

Il mio nome è Delphine. Il mio Gaston.

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