Moahmed percorse il deserto, il suo silenzio assorbì la sofferenza del clima, il bruciante screpolarsi della pelle e cambiò tante volte la sua squame come serpente fra i rari sassi, sprofondato in quella sabbia che è decomposizione della sommitá, un processo inarrestabile di disintegrazione delle montagne.  E comprese che quel deserto è oceano. Sì, perché come nella distesa equorea nessuno riesce a mettere radici se non raggiunge la propria oasi di salvezza.

In silenzio, senza lamentarsi era diventato parte del silenzio cosmico, frammento di una vita inconoscibile nel suo mistero, di una percorso, di un camminamento che porta verso una meta, che per l'ateo è la morte, per il credente è l'infinito. Nel grigiore della sabbia, nello sfrigolio della quarzite incandescente, il paesaggio è intervallato dalle dune, onde anomale che si muovono e non ritornano mai al loro posto. Non sono onde di mare che baciano la riva e poi ritornano a viaggiare, ma onde destinate a comporsi e decomporsi per ritornare ad essere onde, ma di differente tipologia. È la simbologia della nostra fragilità di uomini che nascono vivono muoiono e dopo tanto peregrinare si ritrovano cancellati dalla faccia della terra perché sono polvere tra le polveri.

Moahmed pianse. Era diventato saggio e chi è in questa condizione soffre più di chi continua a lasciarsi trascinare dal tempo perché ha compreso il senso inenarrabile. La saggezza era diventata una meta di chi è arrivato nell'oasi si è rifocillato di quell'acqua che è rimasta nascosta perché scorreva bel sottosuolo ed era arrivata in superficie per dare speranza.

L'oasi è luce nel buio del silenzio. Ma il silenzio può diventare, a sua volta, oasi quando permette la scoperta di sé e della propria presenza nella terra. La vita si trasforma in valore da proteggere, da custodire, da coccolare lungi dalle mortificazioni quotidiane di questo cammino faticoso fra sterpi e cocci di bottiglia aguzzi come schegge.

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