Era il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, quando mio padre mi chiese di accompagnarlo alla Fiera Suina di Capua, perché aveva intenzione di comprare un maialino da tenere in giardino con gli altri animali. L’idea mi piacque, i maialini sono animali molto simpatici. 

«Va bene papà, vengo con te», risposi.

«Perfetto figliolo, prima però dobbiamo sistemargli la casetta. Lo dice il proverbio: Prima di acquistare il maiale, costruisci il porcile!», sentenziò mio padre, mentre toglieva roba vecchia da uno stabbiolo in pietra che avevamo in giardino. Dopo circa un’ora di lavoro la casetta del maiale era bella e pronta.
 

«Ti piace, Giacomino?»

«Ci starà bene in questa casetta, mi piace.»

«Bene, allora possiamo andare a prenderci il nostro bel maialino.»  

La fiera era molto grande e ovunque c’erano grossi porci impinguati, ma anche tanti maialini di pochi mesi di vita; e tutti, grandi e piccini, grugnivano, facendo un gran chiasso. Ci fermammo da un venditore che nel recinto aveva tre bei maialini col pelo rosa maculato di nero. 

Prendemmo il più vivace dei tre. Era dolcissimo con il suo codino attorcigliato come un boccolo. 

Mio padre pagò il venditore, caricò il maialino sul camion e ci avviammo verso casa. Sull’automezzo in movimento, ogni tanto alzava il muso in su per annusare l’aria, mentre socchiudeva le sue palpebre rossicce. Chiamammo quel maialino Tommmaso e appena lo portammo a casa, mangiò un pastone di farina di mais preparatogli da mia madre e se ne andò beato nella sua casetta a riposare. Ogni tanto gli davo da mangiare delle ghiande, di cui era ghiottissimo, ma quando capì dove le prendevo, un giorno ci andò da solo e vuotò tutto il sacco. 

«Tra il gatto e la frittura bisogna mettere una serratura», disse mio padre, «e a quanto pare, anche tra i maiali e le ghiande bisogna metterne una». 

Il giorno dopo, comprò un nuovo sacco di ghiande, ma questa volta lo tenne chiuso in magazzino, e davamo al maiale unicamente la sua razione giornaliera. Col passare dei mesi diventammo molto amici, Tommaso ed io, ma purtroppo quell’amicizia non durò a lungo. In qualche occasione avevo sentito mio padre parlare con mia madre, «Bisogna nutrirlo bene se vogliamo del buon lardo», diceva. Più di una volta, lo avevo anche sentito pronunciare alcuni suoi proverbi: «Il porco campa un anno», oppure, «Il porco per un anno mangia e per un anno dà da mangiare.» 

Una mattina dell’inverno successivo mi svegliai molto presto, perché sentivo un chiacchiericcio provenire dalla cucina. Scesi dal letto, mi recai in cucina e vidi che c’erano i miei genitori con un signore di nome Melchiorre che era venuto per uccidere Tommaso. Mi ribellai con tutte le mie forze, ma mio padre mi ordinò di chiudermi in camera mia. Me ne andai in camera mia sbattendo la porta e piangendo. Aprii leggermente la finestra, e guardando da una fessura riuscii a vedere che erano arrivati due vicini di casa e un mio zio, per aiutare mio padre e il signor Melchiorre a uccidere il maiale. Vidi mio padre soffiarsi tra le mani, dopodiché aprì l’uscio della gabbia e lasciò uscire Tommaso che, come se avesse capito tutto, cominciò a correre spaventato per il giardino. Uno di loro lo afferrò per il codino, e mentre mio padre lo teneva per le orecchie, gli altri gli bloccarono le zampe, cercando di legargliele. A quel punto, il signor Melchiorre impugnò un bastone con sopra un uncino di metallo appuntito e lo agganciò sotto al mento del maiale per tirarlo sul tavolaccio dove l’avrebbero ucciso. Il povero Tommaso si dibatteva, arretrava, grugniva e piangeva. Dalla mia cameretta vedevo e sentivo ogni cosa. Mentre il signor Melchiorre continuava a tirare col suo bastone uncinato, Tommaso arretrava, e mentre lo faceva, girava i suoi occhi impauriti verso la finestra della mia cameretta. I suoi dèi, quelli che lo avevano accudito e nutrito, lo avevano ingannato di un falso amore, e ora che si erano rivelati demoni dalle brame fameliche, la sua ultima preghiera era per me che però non riuscii a far nulla per aiutarlo, e così lo abbandonai impotente nelle mani dei suoi aguzzini. Lo trascinarono, sollevandolo, sopra una mezza botte rovesciata, e mentre Tommaso non si rassegnava e continuava a gridare e a dibattersi per cercare di salvarsi, dopo che gli legarono le zampe a due a due, il signor Melchiorre estrasse un coltellaccio lungo e affilato dal fianco e lo ficcò nella gola del maiale, recidendogli la giugulare. D’un tratto il suo grido si fece roco e sfiatato, e mentre il sangue usciva a fiotti dalla sua gola, e veniva raccolto in un recipiente posizionato sotto il suo collo, il grido di Tommaso si faceva sempre più debole, finché ad un certo punto si spense completamente. Mi buttai sul letto affondando con la faccia nel cuscino, e dopo qualche minuto passato a piangere, mi addormentai. Quando aprii gli occhi, mi resi conto di aver dormito per circa un’ora e per un attimo credetti di aver sognato tutto. Uscii fuori nel giardino e vidi il maiale appeso a una balaustra, diviso a metà e senza la testa. Il signor Melchiorre aveva già sezionato le sue carni, e avevano anche sciolto il suo grasso in un grande pentolone per farne la sugna. Tommaso non c’era più. Per un attimo mi venne in mente il giorno in cui lo prendemmo alla fiera, col suo codino arricciato e il muso per aria che annusava la vita. Non volli mai assaggiare le salsicce essiccate di Tommaso, e per oltre un anno non volli più mangiare alcun tipo di carne. Un giorno mio padre mi fece una domanda: «Giacomino, secondo te tra il lupo e l’agnello chi è il cattivo?» 

«Che domande, il lupo è il più cattivo», risposi con convinzione.

«Sbagliato!», soggiunse mio padre, «il lupo ha diritto di vivere esattamente come l’agnello, e se l’agnello può mantenersi in vita mangiando erba, il lupo e i suoi piccoli per sopravvivere hanno bisogno di carne. Io credo che se Dio ha creato animali che per sopravvivere devono mangiare altri animali, in questo ci deve essere qualcosa di giusto che forse non riusciamo a cogliere. Dio avrebbe potuto creare tutti gli animali erbivori, inclusi noi, non credi?», disse, «se ci avesse fatti come le pecore, la carne non ci piacerebbe, non la vorremmo, e nessuno mangerebbe nessuno», concluse con un sorriso. Lo guardai, sembrava avere un senso quello che diceva, ma non dissi nulla. Mio padre mi accarezzò sulla testa e se ne andò. La carne di Tommaso non la mangiai mai, ma col passare del tempo fui persuaso dalle parole di mio padre e ripresi a mangiare carne come tutti gli altri. Oggi gestisco una fattoria, ma tutte le volte che devo uccidere un animale, ho imparato a chiedere perdono all’animale che sto per ammazzare, e a ringraziarlo per il suo sacrificio, ricordandomi che lo stesso dio che mi dà il potere su ognuno di essi, un giorno, quando deciderà di stendere la sua mano su di me, consegnerà le mie carni nel potere di altre creature, e i vermi saranno gli ultimi commensali di tutta la catena alimentare, fino a restituire di nuovo terra alla Terra. 

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