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Ebbe, nel veder danzare quella donna minuta e pallida nel sottopassaggio della metro, uno stupore antico. La meraviglia di quel corpo che fendeva l'aria con le mani e armonizzava le linee spezzate e confuse della città, aveva il sopravvento su tutto. Venne rapito da un tempo rappreso in un metro quadro. Come in una teca, il rumore del treno le moriva accanto, per rianimarsi dopo averla oltrepassata. Tutti la guardavano. Al suo danzare era superflua la parola. Pensava che ad alcuni è risparmiata la faticosa opera d'ingresso nel mondo con le parole. Dalla lallazione alla discussione della tesi di laurea, un lavoro da bestie! Le frasi da articolare, le convenzioni da adottare, le inflessioni da infondere al tono della voce. Roba strana per lui. Nel suo dire goffo le parole incespicavano, lo rendevano ridicolo, il tono si trascinava da luogo a luogo senza trovare il tempo di mutare. Diveniva rozzo laddove c'era bisogno di dolcezza, fluido dove serviva rabbia. Un corpo immobile che cercava di muoversi, annaspando e gesticolando, con quegli strumenti poco spendibili che erano per lui le lettere parlate. Il giornalaio, il ragazzo della pizza. Il vigile. Il loro vociare cambiava repentinamente , adeguandosi alposto nel quale stavano per entrare, mutando ai ritmi infernali che la città impone. Toni, aggettivi, postura, intonazione. A nessuno era permesso usare la propria lingua, d'obbligo la parola del luogo vicino, violentando, mozzicando, sottoponendo i pensieri originari a cambi d'abito che finivano per snaturarlo. Quella ragazza no, lei annullava il linguaggio. Tutti venivano calamitati da quel che trasmetteva, senza dire una parola. Roteando il bacino e la schiena in un movimento che ricordava l'ossessivo ondeggiare dei rabbini davanti al muto del pianto. O mimando la camminata armoniosa della Carmen quando entra in scena. Forse solo Joe Strummer col microfono vicino alle labbra, o Carlo Maria Giulini, quando chiudeva gli occhi alla Scala. Se avesse avuto in dono la capacità di ballare, se ne sarebbe potuto stare per sempre nel silenzio delle parole. Le giunture non pensano, nascono per essere messe alla prova da sforzo. Da qua la facile sensazione trasmessa da quella donna, di poter essere puro corpo, di poter essere solo come macchina irriducibile al mondo. L'universo ridotto a un movimento di grazia. Una sorta di salto all'indietro nell'evoluzione della specie, quando il corpo era tutto. Amò da subito quella donna, maestra nel ridurre il mondo a corpo puro, facendo a meno delle parole che ella ben conosce. E che vuole disabituarsi ad usare. Quelle parole cavate in tante sedute di analisi, sepolte e macilente come muscoli non allenati da anni. Un corpo chiuso, senza pori, che si muove e cerca posto come un sasso incastonato tra i sassi. La sua sola parola, era invece la corsa. Uscì dalla metro, e infilò le scarpette. Non era dunqueil solo a tacere. Il maratoneta infatti non ama parlare, se non a sforzo finito. Lui e quelle donne, fautori di un atto di divorzio dal linguaggio, che abdica ad espressioni più arcaiche. La corsa sincopata, il sudore. Il tronco che deve trovare un armonia nel giro della gamba per sostenersi, in modo del tutto innaturale giacché nessuno di noi oggi deve correre per poter vivere. Dunque un cristallo, una monade non parlante che fende l'aria. Un corpo che corre , isolato e refrattario a tutto. Riprese la sua corsa, osservandola mentre si chinava e muta ringraziava. Aveva incontrato un silenzio simile al suo.
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Utente Anonimo
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