L’arrivo
Appena sceso dall’interregionale, Giorgio fu accolto da un vento freddo. Sentì un rumore di piedi che correvano in ognidirezione. Si tranquillizzò. Milano brillava di luci, non solo artificiali. Le stelle in cielo rendevano tutto insolitamente più respirabile. Intorno al collo, il foulard rosso con un sole
nascente stampato in nero vicino all’orlo dorato. Era stato ilsegreto politico di suo nonno materno dall’occupazione fascista di Roma fino al ’45.
Prese a camminare senza una meta certa. Di solito arrivava in questa città più per abitudine che per volontà diretta.
Adesso, però, sapeva perché era tornato. Questa voltasarebbe stato diverso. Presto sarebbe arrivato là, in quella strada, sotto il portone da cui si era trascinato via a forza, lo stesso portone che ora lo stava richiamando.
Appena fuori dalla stazione, cercò un bar. Gli piaceva mescolarsi alle persone che nessuno guarda. Ordinò una pinta di birra nera. Ne offrì due, chiare, ad altrettanti avventori. Bevve. Uscì.
Raggiunse la fermata più vicina della metropolitana. Si buttò giù per le scale.
Il respiro accelerava. Non era la prima volta. Gli capitava spesso di sentirsi inseguito.
Aveva compiuto 50 anni da pochi giorni. Da più di venti cercava solo di cancellare quelle scene, di zittire quelle voci.
Sta in piedi al centro della cucina. Due fornelli accesi al massimo. Grida: è un violento. Un incapace. Minaccia e mena. Non sa fare altro.
Giorgio scelse l’ultimo vagone del metrò in arrivo, apparentemente ignaro della destinazione. Intorno a lui, solo sguardi bassi e volti appannati da una paura che teneva forzatamente a distanza.
Scese dopo sette fermate. Entrò nella via, si fermò sotto il portone. Si tolse il foulard e cominciò a stropicciarlo. L’etichetta sul citofono non era cambiata. Suonò. Silenzio.
Non ha spina dorsale. Dorme tutto il giorno. Solo io riesco a
darvi tutto ciò che vi serve.
L’androne
Il portone si aprì. Ne uscì una coppia abbracciata. Il foulard, stretto come il nodo che sentiva crescere in gola, aiutò Giorgio a varcare la soglia e fermarsi nell’androne del palazzo. Per tanti anni l’aveva esplorato in lungo e in largo,a piedi e in bici. Era stato il luogo dei suoi straniamenti.
Oggi era solo un recinto di pochi metri quadri. Si ricordò di quando, ancora ragazzino, stava ore a guardare i semi di scuola messi sotto il cotone a germogliare e li confrontava con l’immensità delle piante giù in cortile che gli sembravano fitte e gigantesche come quelle della giungla di Tarzan o
della foresta di Robin Hood. Adesso quelle piante stavano lì sacrificate in piccoli vasi di terracotta. Non sembravano più le stesse.
Pensò al fratello più grande, Corrado. Pensò che non avevano mai giocato insieme in quel cortile, che non erano mai stati complici. Non ne avevano avuto il tempo. Non gliene avevano dato la possibilità. Tutto li costringeva a sentirsi troppo diversi uno dall’altro, tanto distanti da non potersi scambiare segreti, da non poter nemmeno provare a crescere insieme.
Corrado era morto giovane. Se ne era andato con la stessa fretta con cui aveva sempre vissuto.
Salì al primo piano. Bussò alla porta. Aprì una vecchia con uno scialle di lana spessa a proteggere le spalle. Tra i pochi capelli che le coprivano la nuca, ne spiccavano alcuni di un turchese simile a quello delle fate che lui, bambino, vedeva muoversi nelle storie della buonanotte.
Del viso dell’anziana si intravedeva a malapena il profilo. Il naso aquilino aveva un’inclinazione diversa da come lo ricordava. Sembrava voler andare oltre il mento, quasi a toccare terra.
La donna alzò la testa appena quanto serviva per inchiodare su quell’uomo uno sguardo ormai sfuocato.
Lo fece entrare, senza domande.
L’appartamento
Irriconoscibile. Un tempo, in quella casa le parole d’ordine erano igiene e precisione. Giorgio da piccolo si arrampicava sulla libreria della sala ad annusare libri a lui proibiti. Oggi quei libri resistevano, illeggibili, sotto uno spesso strato di polvere. Quante volte le tende scorrevoli, quei teli bianchi e fruscianti, l’avevano portato lontano, nel regno della pace, della felicità, a vivere sentimenti e emozioni che non trovavano posto fra quelle mura. E le pareti, allora espressione di un gusto artistico freddo e all’avanguardia, adesso sopravvivevano nude e scrostate.
L‘ombra con il pugno alto e serrato si allunga dietro di lei,
china a lavare i piatti della cena. La minaccia, insultandola.
Giorgio sta in ascolto, pietrificato sotto la coperta imbottita.
Corrado si prepara all’ennesimo scontro.
Il foulard chiuso nella mano sudata. Quella casa non era più casa sua. Lo era mai stata?
Mi alzo o sto qui? Corrado è di là che urla e io non riesco a muovermi. Non devi toccarla. Ti supplico, non toccarla. Non farle di nuovo male.
Il peso inutile dei ricordi.
Adesso mi alzo. Vado a vedere che faccia hanno. Sicuramente non quella che ci mostrano da svegli. Resto a letto. Corrado dorme. Sogna, agitato. Resto a letto.
Da quando l’ombra era stata cacciata di casa dalla polizia e Giorgio, come Corrado, se ne era andato per la sua strada, il meccanismo si era inceppato. Lei aveva smesso di vivere.
Adesso posso andarmene e cominciare. Per me. Prendo il foulard del nonno. Distacco. Dolore lancinante. Sarà stato così anche per Corrado?
L’addio
La madre, in piedi accanto al divano del salotto buono, puntava verso di lui un’occhiata vaga e dubbiosa. Giorgio era sempre più aggrappato al foulard rosso.
Finalmente, lei: “Corrado… sei tu?”
Giorgio, pallido e teso, andò alla porta. Fece cadere il foulard. Un nuovo dolore, più breve.
Raggiunse la stazione con una lentezza penosa. Lo sguardo rivolto in giù a fissare i piedi pesanti da spostare come due grandi blocchi di cemento.
Fece appena in tempo a non perdere l’ultimo treno della sera.