“Anche questa è fatta” mi dissi con un certo sollievo.
Avevo appena finito di mettere in ordine le carte da consegnare al commercialista per quel rito sacrificale che risponde al nome di Dichiarazione dei Redditi. Ero stanco. “Ho proprio bisogno di una bella dormita”, pensai stiracchiandomi con gli occhi chiusi, per assaporare la dolcezza del buio.
La sensazione di sollievo fu però breve, disturbata da quel verso indefinibile che emetteva il campanello della porta d’ingresso. Non aspettavo nessuno e la cosa mi incuriosì. Aprii la porta e mi trovai di fronte una sconosciuta che conoscevo. Sì, fu proprio questa la sensazione che provai. Quella giovane ragazza, trent’anni, non di più, corpo minuto e un caschetto di capelli neri che ricordava la Valentina di Crepax, aveva un non so che di familiare anche se ero certo di non averla mai incontrata. Mi ricordava la protagonista senza nome del mio primo romanzo ma ero più che certo di non aver mai avuto a che fare con lei.
Pensai che non volesse vendermi un’enciclopedia o sottopormi a un sondaggio oppure chiedermi una sottoscrizione perché non aveva nulla fra le mani. Indossava solo quello sguardo che sprizzava scintille e conferiva al suo volto un’espressione alterata, di risentimento, quasi di arrabbiatura.
«Posso fare qualcosa per lei?» chiesi inarcando appena le sopracciglia.
«Sono qui per questo!» rispose. Con risentimento, appunto.
«Vuole entrare?».
Avanzò decisa, dandomi appena il tempo di scostarmi.
«Mi dica» la incoraggiai.
«Vorrei sapere perché, soltanto questo».
«Non capisco…».
«Nemmeno io. Ma credo di avere il diritto di usare un’espressione del genere, io».
Calcò volutamente la voce su quell’io.
Cominciavo ad averne abbastanza. Avevo la sensazione che la mia semplice esistenza la irritasse. Mi sentivo in un certo senso responsabile di quell’irritazione anche se il buon senso mi spingeva a vederne l’inconsistenza logica.
«Cosa l’angustia?».
«Essere scritta e descritta senza esistere!».
Cosa voleva dire? Non capivo.
«Cerco di spiegarmi…la situazione, di farmi venire qualche idea. Ma le confesso che non mi viene niente in testa» dissi.
«Le idee non vengono dalla testa, ma dal cuore».
«Chi lo dice?».
«Lei lo dice!» urlò. «Lo fa dire a Evritt da sua madre» precisò abbassando il tono.
Evritt era il nome di un altro dei personaggi del mio romanzo. Un nome inusuale, non poteva che riferirsi a lei.
«Per idee la mamma intendeva i sentimenti. Voleva spiegare a Evritt…».
«Eh, già, Evritt, Giséle, Stefano, Desy, Niccolò, Dada…che bei nomi hanno I suoi personaggi».
Il mio pensiero corse ancora una volta alla protagonista.
«Perché è qui? Cosa vuole da me?».
«Lei è un despota! Non posso dimenticare l’esistenza di chi mi nega l’esistenza!».
Ora le rispondo per le rime, pensai chiudendo per un istante gli occhi lasciandomi abbracciare dal buio. La risposta mi fu bloccata in gola da un altro suono, non gracchiante come quello precedente, era più soffice, come quello della sveglia del mio cellulare. Era già ora di alzarsi.