La bellezza dell’imprevedibilità sta nella sua natura stessa, nella forza prorompente che ha l’inaspettato di piombarti addosso. E’ il fattore che nessuno aveva calcolato, quello che s’insinua nel grigio del tuo rigor di logica, stravolgendone regole e colori, e da lì in poi nulla sarà più come prima.
Mi ti sei seduta accanto proprio adesso, mia imprevedibilità. Per l’occasione indossi le tue tinte migliori.
Hai capelli neri.
Di quelli che vorresti farti scivolare tra le dita, per spargere l’odore di balsamo alle mandorle tutto attorno. Ma resisti alla tentazione, forse perché geloso di quel profumo che puoi sentire solo tu, standole accanto.
Capelli che si fanno figura retorica, metonimia della vita: folti alla radice, vanno assottigliandosi man mano, per terminare in un mucchio di punte fragili e spezzate. Capelli più insicuri dell’umana condizione, martoriati da troppi colpi di piastra nel tentativo di sentirsi migliore.
Hai unghie rosa.
Dieci deliziose dita dalle appendici smaltate.
Unghie al sapore di confetto, unghie da mordere fino ad avere i denti cariati. C’è un piccolo rigonfiamento scuro sul medio sinistro, un callo che mi sussurra dei tuoi astucci pieni. Unghie su misura per dita che impugnano matite colorate e disegnano arcobaleni, che si tendono come la corda di un arco quando sfuggono al contatto con una mano estranea, che accarezzano volti e ad ogni tocco lasciano scie di petali sulle gote.
Hai occhi bruni.
Due caldarroste appena tolte dal fuoco. Occhi come insegne luminose intermittenti. Un impercettibile tic, sarà che forse leggi tanto. Ma lèggere tanto non è mai troppo. E’ solo tanto. E’ quanto basta per evitare di soccombere, di piegarsi come una spiga di grano torchiata dal vento delle chiacchiere altrui. Occhi che giocano a ping pong, fermandosi ora sul libro che sta leggendo, ora su un bottone, poi di nuovo sul libro, e ancora sulla scarpa slacciata di un bambino che ride.
Accanto a te, che sei lontana mille galassie, ci sono io. Io che dal mio piccolo mondo in bianco e nero sbircio senza farmi notare. Parto dagli occhi scuri, percorro la lunghezza diafana dei tuoi capelli, arrivo alle unghie e il mio cervello finge di solleticarti il palmo della mano. Ti strappo prima un mezzo sorriso, e poi il libro dalle mani. Stai leggendo Bukowski, m’è sempre piaciuto. Non ci credi, pensi stia mentendo per compiacerti, ma poi cedi dinanzi la mia espressione contrita, e l’ostilità granitica dietro la quale ti scudi da sempre crolla a terra emettendo un boato fragoroso, che nessuno sente all’infuori di noi. Il mezzo sorriso si moltiplica per se stesso: ora è intero, e abbaglia e scotta tanto ch’io mi liquefaccio. Colo a rigoli giù per il seggiolino; tu unisci i palmi per raccogliermi, e bevi come se avessi appena attinto alla più fresca delle cascate in un mezzogiorno di pieno agosto.
Ti conosco da sei minuti esatti, e ti amo già. Ti amo senza cognizione di causa, con l’illogica pretesa di sapere tutto di te. Ma è giusto che sia così; in fondo, l’innamorato è un vecchio pazzo in preda ad estatiche allucinazioni senili, che vede ciò che vuol vedere. Illusioni o diffidenza: ognuno si difende come può.
Una voce di donna annuncia serafica la fermata della metropolitana: “Lepanto, uscita lato sinistro”.
Ti alzi e te ne vai, e con te se ne vanno via i capelli neri, le unghie rosa, gli occhi bruni, Bukowski, i tuoi astucci pieni di matite colorate, la sete, noi.
Ciò che se ne va è destinato a non tornare.
La metro riparte, inghiottita da un cunicolo incolore.
Ti amo da sei minuti e dieci secondi, e non lo saprai mai.