Quante volte Alice mi aveva chiesto di scrivere un racconto che parlasse di noi.
All'epoca stavo preparando lo schema per il componimento del mio nuovo libro e lei, con amore infinito, mi pregava di scrivere la nostra storia.
La sua era un’insistenza dolce, e la sua voce s’insinuava lentamente nella mia testa. Io non rispondevo, o annuivo stancamente. In quei giorni avevo il classico blocco dello scrittore, e la pagina rimaneva bianca o pasticciata di mille ghirigori.
Le avevo provate tutte: camminate, uscite con gli amici, un po’ di sesso, birra, vino e grappa. Chiesi anche a un amico di procurarmi un po’ di marijuana per aprirmi la mente. Niente, qualche abbozzo d’idea, qualche riga scritta e nulla più. Non riuscivo a trovare la forza per dare incisività alle storie e le mie dita continuavano a grattare la testa.
Un giorno le dissi: “Alice, domani andremo a vedere l’oceano. Ho voglia di vedere la distesa d’acqua protrarsi all'infinito, il cielo che degrada dolcemente verso l’orizzonte e lì, sul molo di un paesino qualsiasi, abbracciarti.”
“Tutto quello che vuoi, io ci sarò.” Mi rispose.
Partimmo la mattina presto con destinazione Deauville. La giornata era semplicemente stupenda, con il cielo di un bellissimo colore blu pervinca per via del forte vento che aveva soffiato nella notte. Camminammo lungo la spiaggia, riscaldati dal pallido sole invernale, attorniati da una miriade di gabbiani festanti. Mi stavo rilassando, lasciando in disparte tutti i miei problemi e godendomi la brezza leggera che mi accarezzava il viso.
“Ti sta venendo l’ispirazione?” Mi chiese a bruciapelo.
“Alice” le risposi “non lo so. Viene nel momento che meno te lo aspetti. Questa passeggiata mi rilassa e da qui devo partire. Non so dove arriverò. Voglio scrivere un libro di racconti e attendo con pazienza le idee. Forse arriveranno da lontano, cavalcando le onde, sospinte dal vento. Io sono qui ad aspettarle.”
Ritornammo silenziosi, immersi nei nostri pensieri, profondi sino al fondo di noi stessi.
Nelle settimane successive incontrammo alcuni nostri amici. Io mi ritrovai in forma e molto ciarliero; ero intriso di un’ironia fiammeggiante, alimentata dalla mia disperazione di non riuscire a scrivere nulla. La confusione si accavallava nella mia testa e Alice non mi dava tregua. Non mi concesse molto tempo quel giorno, costringendomi, con mille sotterfugi, a rientrare a casa. Voleva che mi concentrassi, che cominciassi a scrivere di getto, con rabbia e furore, come nei miei primi romanzi.
Un giorno Alice arrivò con una decina di libri, da Carver a Yates, da Dubus a O’Connor, tutti i grandi delle short stories finirono sul mio tavolo. M’incitò sorridente, dicendomi che mi avrebbero aiutato nello sviluppo del nuovo libro. Mi diede un leggero bacio sulle labbra e mi portò un caffè. Io annuii come fa ogni bravo scolaro, e cominciai a leggere con una voracità primitiva che non avevo mai provato, stando sveglio fino a notte inoltrata, quando crollavo dal sonno sul suo ventre materno.
Nei lunghi pomeriggi passati bighellonando per la casa, tra letture e uscite in giardino per fumare una sigaretta, Alice mi studiava, mi monitorava. Anche quando ero assorto nella scrittura di qualche povera riga scritta al computer o su un semplice pezzo di carta, lei era lì. Mi rendevo conto della sua continua presenza quando il silenzio della casa diventava irreale, come se percepissi un fermo immagine inquietante. Allora i miei sensi mi riportavano alla realtà, e mi guardavo intorno. Lei era lì. A quel punto sentivo i muri della stanza restringersi sempre più, li vedevo avvicinarsi pericolosamente al mio corpo, fino a che sentivo l’aria mancare e i muri stritolarmi. Allora sul foglio scrivevo: sensazione di claustrofobia.
Ripensavo spesso ai miei successi. Il primo libro s’intitolava La perfezione dell’uovo. Lo avevo scritto in poco più di un mese. Un tomo di quattrocento pagine che raccontava l’epopea di Zihor, un fantomatico mondo parallelo. La curiosità, che mi fa sorridere ogni volta che ci penso, deriva dal fatto che il titolo originale doveva essere La perfezione dell’uomo. Un incredibile errore tipografico aveva cambiato l’oggetto di questa perfezione e innescato un successo a livello mondiale. Quindici milioni di copie vendute in trentasette paesi, televisioni sotto casa e centinaia di studentesse pronte a tutto. Neanche Rocco Siffredi, John Holmes e uno stuolo di eredi avrebbero potuto soddisfarle.
Eppure sono sempre rimasto fedele alla mia Alice, madre, moglie, compagna, segretaria, schiava e sorella, tutte personalità che coabitavano in lei nel rapporto che ci univa. Poi vennero altri due libri, Il triangolo equilatero e Carne di tacchino. Erano racconti, pensieri, sulla solitudine esistenziale. Non ebbero il successo del primo, ma arrivarono sempre in vetta alle classifiche di vendita.
Oggi sono andato in cucina, lei era al lavello a preparare i pomodori. Ero stanco e sudato, nonostante fossimo in pieno dicembre.
“Alice, sto pensando seriamente di smettere di scrivere, di arrovellarmi, di sbattere la testa contro un muro che ogni giorno è sempre più resistente.” Le ho detto.
“Amore” mi ha risposto con gli occhi sbarrati “non desistere, ti prego, continua, impegnati, non aver timore. Hai vinto tanti premi letterari, sei famoso, non puoi lasciare tutto così.”
“Potrei fare il rappresentante, mettermi la cravatta e sbarbarmi tutte le mattine. Un po’ di acqua di colonia e via per le strade del mondo alla ricerca di clienti. Mi farebbe bene, potrebbe rischiararmi la nebbia che ho nella testa.” Ho ribattuto, senza troppa convinzione.
Ha messo i pomodori in una vaschetta, si è asciugata le mani e mi è venuta vicino, abbracciandomi.
“Amore, no, ti prego, non mollare, fallo per me. Vedrai che il sole diraderà tutte le foschie e tornerà a splendere su di noi.”
Ho guardato i suoi occhi di un azzurro chiaro limpidissimo, dove per tante volte mi sono perso viaggiando nel tempo.
Dio mio! Ora che Alice giace al mio fianco, su questo letto sfatto, fredda e rigida dopo che l’ho strangolata, ripenso a tutti i mesi precedenti.
Amore, come sorridevi mentre le mie mani stringevano. Avevi capito che l’ispirazione stava arrivando.