In Italia una scuola elementare è sempre un caravanserraglio educazionale, sia in un piccolo comune che in una grande città. Tale è anche quella di *****, Lombardia. Alunni “normali” e altri con problemi, ricchi e poveri, italiani e no, insegnanti di ruolo, precari in attesa di migliore sistemazione, altri ancora impiegati nel sostegno scolastico.

 

Lauretta, seconda elementare, è una bambina curiosa per natura, per cui quando portano per la prima volta dentro la sua classe quello strano bimbo, incomincia subito a studiarlo. E’ sempre accompagnato da una maestra, non va da nessuna parte se non lo si prende per mano, non lo chiamano mai per leggere a voce alta, tiene sempre gli occhi chiusi. Ha anche un nome strano, si chiama Miro (che nome! Gli altri maschietti si chiamano sempre Davide, Roberto, Fabio o Andrea o Marco). Lauretta decide che questo mistero merita di essere approfondito, per cui un giorno, durante l’intervallo, lo avvicina e gli si siede accanto.

 

“Ciao”, esordisce.

“Ciao, chi sei?” , risponde lui.

“Lauretta. Perché hai sempre gli occhi chiusi?”

“Non lo so …”

“E come fai a vedere, scusa?”

“Io non ci vedo, anche se apro gli occhi.”

“Non ci vedi?! E come fai a leggere e scrivere?”

“Non posso. Io vedo il buio.”

“E perché?”

“Boh, sono nato così.”

“E nessuno ti ha insegnato a vedere? Se vuoi t’insegno io.”

 

Comincia così una singolare amicizia. Ogni giorno Lauretta si trascina per mano Miro che la segue fiducioso, lei gli illustra i disegni appesi alle pareti.

 

“Questo è un albero, l’ha disegnato Fabio. Questo è un cesto di frutta, l’ho fatto io e ci ho messo dentro anche i limoni.”

“Perché i limoni? Il limone è aspro!”

“Si, ma il ghiacciolo al limone è buonissimo. E poi mi piace il colore.”

“Di che colore sono i limoni?”

“Gialli. Il giallo è il mio colore preferito.”

“E com’è, il giallo?”

“E’ lo stesso colore del sole e di certi fiori che crescono nel mio giardino. E’ un colore chiaro.”

 

Miro è dubbioso, ma annuisce con entusiasmo. Quel gioco gli piace da matti, mai nessuno ha giocato così con lui. Le maestre vedono di buon occhio questa cosa, e lasciano fare. Anzi, in un colloquio insegnanti – genitori, spiegano a mamma e papà di Lauretta quanto la loro figlia sia disponibile verso quel bambino sfortunato. I due si inorgogliscono, che brava bambina che hanno.

La sera a cena si informano.

 

“Allora, come va con Miro?”, chiede papà.

“Bene. Miro è simpatico, anche se è cieco.”

“Non si dice cieco, Lauretta”, corregge mamma. “E’ meglio dire non – vedente.”

 

La bambina esita di fronte a quell’incomprensibile eufemismo.

“Non vedente?! Ma non è vero! Lui vede il buio.”, protesta. “E poi gli sto insegnando io a vedere le cose e i colori.”

I genitori sorridono con un po’ di paternale condiscendenza; amano la bambina, ma non sono in grado di coglierne la poesia dell’anima.

 

Passano un po’ di anni, i due ragazzi crescono. Miro lavora part-time da casa per un’azienda che assembla componenti microelettronici; la sua sensibilità tattile, addestrata negli anni, costituisce in quel settore un valore aggiunto. Insieme alla pensione d’invalidità, non se la passa male. Lauretta è all’ultimo anno di università, Scienze Politiche; sogna una carriera diplomatica, ha grinta e determinazione, oltre ad un brillante curriculum di studi. Vivono ancora entrambi nello stesso paese; due vite parallele che però, in barba agli assiomi geometrici, convergono spesso e volentieri. Sono rimasti amici, ottimi amici, e si frequentano. A volte, quando gli capita di trovarsi da soli, si fanno uno scherzo reciproco, sempre lo stesso.

 

“Miro,” - chiede Lauretta - “di che colore sono i limoni?”

“Gialli. Il giallo è il mio colore preferito”, risponde lui. E poi aggiunge: “Sempre se non mi hai preso per il culo tutti questi anni.”

 

E scoppiano a ridere, come due bambini.

 

 

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