Quelle scritte fatte col gesso davanti alla porta d’ingresso avrebbero dovuto insospettirmi. La prima volta che ho partecipato al corso di scrittura creativa mi sono fatta abbagliare dall’aria rilassata del gruppo. Tutti gentili, accoglienti, mi guardavano con simpatia.
Adesso so che non guardavano me, ma osservavano con cupidigia la zanzara che si abbeverava sul mio braccio.
Ho ignorato tutti i segnali anche quello definitivo: così macroscopico da essere impossibile da vedere. Una mattina trovo sulla chat una richiesta di Fabio che diceva “A proposito ieri sera mi sono dimenticato di chiedervi qual è il colore del sangue.”
Non mi è sembrato strano, anzi lo credevo una battuta. Già, ma le risposte non sono state simpatiche: adesso me le rivedo davanti agli occhi e urlano “non tornare più in quel posto”. Solo che adesso so che da quel posto c’è solo un modo per andarsene veramente e non mi piace per niente.
Non so da quanto tempo sono chiusa nel bagno del doposcuola. Probabilmente almeno da un ora, perché le ginocchia iniziano a farmi male. Me ne sto qui accucciata contro la parete che abbraccio il water, come se potesse difendermi. Come un animaletto spaventato tremo, ascolto il mio cuore che batte all’impazzata e piango. Tutte cose che in questa situazione sono inutili, ma dopo aver verificato che questo bagno non ha finestre, il mio telefono è rimasto di là e alle mie urla non risponde nessuno non mi rimane altro da fare se non pregare per la mia anima. Inutile continuare a colpevolizzarmi: loro sono troppo abili, non avrei potuto capirlo prima.
Il primo vero sospetto l’ho avuto solo questa sera. Sulla lavagna Giorgia aveva scritto a grandi lettere elaborate: “Sole, cuore, amore” con uno strano pennarello. Il chiedermi se quell’ inchiostro che dal rosso rubino iniziale si stava trasformando in un caldo marrone emanasse quell’odore dolciastro e metallico che avvolgeva la stanza è stato un tutt’uno con una sensazione di consapevolezza quasi dolorosa. Un brivido freddo mi è corso lungo la schiena e le mie gambe hanno fatto da sole uno scatto verso l’uscita. Ma io le ho ignorate e mi sono seduta da brava bambina nell’unico posto libero. Quello più lontano possibile dalle porte e dalla finestra e quello che aveva sui braccioli delle strane decorazioni paurosamente simili a cinture di contenimento.
Solo allora ho visto cosa c’era in mezzo al tavolo. Eppure ancora il mio cervello si è rifiutato di credere a quello che in tutti i modi il mondo cercava di dirmi. Quando Giorgia ci ha parlato della necessità di fare il maggior numero di esperienze sensoriali possibili per descriverle al meglio ho concordato con lei e ho rifiutato di chiedermi in che modo ci avrebbe fatto fare esperienza con coltelli, taglierini e roncole.
Mi sono messa a ridere stupidamente quando ci ha detto che avremmo dovuto scegliere una persona da pugnalare per capire “l’effetto che fa”. Ingenuamente ho ribattuto: “Ma quello che viene pugnalato, come fa a capire cosa prova un assassino?”
La risata che ho fatto dopo mi ha spaventata quasi di più di quello che ha ribattuto. “Non ti preoccupare se sarai ancora in grado di usare le mani scriverai un racconto dal punto di vista della vittima.”
Il rumore successivo che ho sentito è stato quello della sedia che rotolava sul pavimento. Mi sono avventata contro la porta, ma uscita in corridoio ho sbagliato direzione e invece di afferrare la maniglia della porta d’uscita, sono finita davanti alla porta del bagno.
Una volta lì non ho avuto scelta, sono dovuta entrare e chiudermi dentro a chiave. Mi hanno chiamata: dapprima con gentilezza cercando di lusingarmi e sedurmi. Poi è arrivata la rabbia, una furia nella voce che non avevo mai sentito e che mi ha fatto tremare dalla testa ai piedi. Infine il silenzio: pesante, infinito, terrificante.
Dopo alcuni minuti, o forse dopo ore mi è sembrato di sentire un fruscio seguito da dei bisbigli. Non come se stessero confabulando tra loro, ma quasi come se stessero pregando o recitando un mantra. Piano piano il brusio è diventato un bisbiglio e poi con chiarezza hanno iniziato a declamare in coro “Cuore, sole, amore”. Ogni parola era sottolineata da un colpo contro la porta.
L’ho vista tremare, me la sono immaginata schiantare al suolo e li ho visti avventarsi su di me armati di mannaie e coltellini da dolce. Ma niente di tutto questo è successo. All’improvviso si sono azzittiti. Non mi sono concessa neppure la possibilità di sperare che avessero deciso di lasciarmi in vita e neppure quella di riuscire in qualche modo a fuggire.
Me ne sto qui sperando di trasformarmi in un ratto e andarmene per le fogne. Oppure potrei diventare una zanzara e infilarmi attraverso la minuscola finestrella sopra il lavandino. Ma non lo sono e già sento quella cantilena. “Cuore, sole, amore, cuore, sole amore.”
Lentamente mi alzo e avvicino la mano alla chiave: ancora contro ogni evidenza spero che tutto questo sa uno scherzo e che di là mi accolgano ridendo della mia paura. Se così non fosse speriamo che duri poco e che la mia anima sia salva.