La collina dominava campi sterminati di grano maturo e il mare lambiva l’orizzonte, mentre il vento beveva le mie lacrime lasciandomi carezze e la mia anima era quieta.
La trovai con le gambe incrociate sopra un logoro tappeto di paglia, accanto a una capanna gonfia di pioggia. Non aveva carne addosso, la pelle scura e grinzosa era attaccata alle fragili ossa e mi dava un senso di leggerezza e povertà. La tunica di tela grezza le scendeva sui seni piatti fino a coprirle i piedi e una sottile treccia raccoglieva i suoi pochi capelli. Gli occhi, di un colore a me sconosciuto, erano la parte più viva e giovane di quel corpo senza tempo.
Non ci furono saluti o convenevoli tra noi.
“Siedi qui.” mi disse.
Indicò il punto dove l’erba era pesta e il terreno duro. Io incrociai le gambe e sedetti. In silenzio. “Parlami di te.” aggiunse.
Il vento muoveva la distesa di grano e io ne gustavo il piacere sulla pelle abbronzata. Il tempo non era tempo e lo spazio era senza confini. Lei aspettava, senza fretta e senza altre parole.
“Mi chiamo Ennio.”
“Bene.”
Teneva le mani incrociate nel grembo. Volavano rondini nel cielo sgombro, ed erano l’unico rumore nel silenzio.
“Vengo dal sud.”
“Perché sei venuto?”
“Mi hanno parlato di te.”
“E cosa cerchi da me?”
“Cerco la pace.”
“Quale pace?”
I suoi occhi erano spade affilate nella mia anima e le sue labbra sottili mi sorrisero come a un bambino. Non avevo risposte, la pace era lì, in quel luogo e in quel tempo.
“Allora dimmi, quale pace?”
La sua voce era senza fretta e i suoi movimenti erano quieti. Il grano ondeggiò e io ebbi un brivido. Il sole era ancora alto.
“Ho il cuore pesante.”
“Cosa c’è nel tuo cuore di cui ti vuoi liberare?”
“Non lo so.”
Ero lì per trovare risposte e lei mi faceva domande. Sentivo il fuoco dell’impazienza e mi muovevo come su un letto di spine.
“Sono venuto da lontano e prima del tramonto vorrei andare.”
“La fretta uccide i pensieri. Ti piace questo posto?”
Abbracciai con lo sguardo la valle bionda e risposi che mi piaceva, senza guardarla.
“Puoi dormire qui stanotte.”
Non risposi, ma pensai che non volevo restare e lei lo lesse nelle rughe della mia fronte.
“A volte cerchiamo lontano ciò che è vicino.”
Guardava l’orizzonte, dove i confini del mare e del cielo si univano in un amore incomprensibile all’uomo.
“Le tue scarpe sono consumate e i tuoi occhi non conoscono la gioia.” mi disse.
Io risposi che non capivo e lei continuò.
“Tutto ciò che abbiamo nel cuore non è un fardello di cui liberarsi, ma una miniera nella quale cercare.”
Allungò il braccio e staccò una spiga matura. Con il gambo disegnò un cerchio nella terra, sgranò la spiga, ne raccolse i chicchi nella piccola mano e ve li fece cadere dentro. Non parlava né mi guardava, concentrata nei suoi movimenti. Passarono minuti che sembrarono anni e il vento mi scompigliava i capelli e gonfiava le maniche della sua tunica. Era un vento tiepido, che non infastidiva gli occhi, e a me sembrò una voce profumata di salsedine e fieno.
Cesira mi aveva consigliato di salire sulla collina e incontrare la vecchia, leggendomi la tristezza nel cuore. La mia Maria era giovane e forte e io non potevo rassegnarmi al perché non riusciva a portare avanti le sue gravidanze. Eravamo andati dai migliori medici e dopo ogni viaggio cresceva la speranza, e dopo ogni delusione cresceva il rancore.
“Questi sono i semi che il dolore ha piantato nel tuo cuore, odio, rabbia e rancore” continuò lei “essi ti distruggono la vita.”
“Perché Dio mi punisce?”
“Dio non punisce. Dio crea ostacoli per misurare la nostra forza, la nostra pazienza e la nostra fede.” “Ero lavoratore e buon cristiano. Adesso sono perduto.”
“Non c’è fine alla bontà di Dio, e niente di ciò che a lui è possibile può essere fatto qui.”
Il sole era scomparso nel mare, e l’orizzonte si era incendiato di un colore vivo.
“Tornerai a casa domani.”
Si alzò e io la potei vedere nella sua grandezza. Aveva il corpo minuto e i piedi piccoli. La sua faccia era scavata dal tempo e la tunica bianca strisciava nella polvere. Mi indicò il tappeto di paglia intrecciata da dove si era alzata e disse che sarebbe stato il mio letto per la notte. Entrò nella capanna e io non mi mossi. Uscì poco dopo, mi porse una ciotola di riso e per quella sera non la vidi più.
Mangiai mentre il cielo si imbruniva e la stella più luminosa compariva a sud, là dove prima c’era il sole. Mi coricai e intrecciai le dita sotto la testa. I miei pensieri erano diventati leggeri e la mia anima era in pace. Mi girai sul fianco destro e sentii il freddo della notte sulle spalle, ma subito mi avvolse un tepore dolce e accogliente, come nel grembo di mia madre. Il sonno fu lungo e tranquillo.
Mi svegliai all’alba, e la vecchia era in piedi che guardava il nascere del sole.
“Niente può eguagliare le meraviglie di Dio.” disse senza voltarsi.
Avevo l’anima in pace e anch’io sorrisi a quella luce immensa.
“Ora devo andare.” dissi, posando la mia mano sulla sua spalla scarna.
“Ricorda che ciò che cerchiamo lontano è vicino. È inutile consumare le scarpe.” ripeté lei con calma.
“Ho dormito bene, non ho sentito il freddo della notte.” risposi.
“Dio ci tiene tra le sue braccia quando abbiamo il gelo nel cuore.”
Sentii le lacrime salirmi negli occhi, ma non piansi. Le strinsi le mani tra le mie e poi mi avviai a scendere la collina. Non mi abbandonò la pace che avevo trovato in quel posto e me la portai fino a casa.
Mia moglie mi stava aspettando, la salutai e poi presi gli attrezzi per andare a lavorare i campi. Non parlammo quel giorno, né le dissi dove ero stato. Glielo raccontai dopo, mentre nell’ orto toglievamo i rovi che stavano cominciando a soffocare i nostri alberi da frutto.
Oggi ho quarant’anni e ne sono passati cinque dal mio viaggio sulla collina. Mio figlio ne ha tre.