Giovanni sale la scala di Maria Razivia. Maria non ha genitori e racconta sempre d’essersi forgiata da sola, durante una traversata infernale in barcone dal porto di Danzica fin qui, a Napoli. Giovanni invece è nato alla maniera tradizionale: ha usato sua madre per venire al mondo in questo vortice di passanti che si toccano senza conoscersi, al solo scopo di trovarsi qui, su questo pianerottolo al 155 di via dei Tribunali. Lei gli fa strada nel corridoio di casa con un sorriso che non arriva tanto in alto da toccarle gli occhi.
«Come stai?» le fa lui.
«Un po’ di nausea.»
«Te l’ho detto di non mangiare il sushi in quel posto lì.»
«Ti ammazzerei quando dici ‘te l’avevo detto’ »
Salute, cibo. La solita conversazione per prendere tempo, salvare le apparenze, in attesa che uno dei due prenda l’altro per mano e lo conduca alla angusta stanza da letto per scopare. Maria gli si avvicina quasi senza guardarlo e lo trascina in camera, una cosa minuscola tutta spigoli. Quante volte ci tocca essere felici in stanze scomode. Un attimo di distrazione e Maria si è già distesa sul letto con la schiena inarcata e le gambe dischiuse, lo sguardo serissimo, la muscolatura definita e guizzante. Insopportabilmente bella mentre si tira su i calzini lunghi fino al ginocchio che sa bene essere una sua innocente perversione. Insopportabilmente distante mentre lo bacia come per tranquillizzarlo. La sua pantera bionda. Si muove per sfilare i jeans, che abbandona sullo schienale della sedia. Giovanni si spoglia, e lei altrettanto. La stringe a sé, e lei altrettanto. Mentre la scopa Giovanni ripensa a com’è cominciato questo frugarsi, questo graffiarsi di carezze cannibali.
Ha incontrato Maria al “Joska la Rossa”, un bar di immigrati dove lavora come barista per pagarsi gli studi. Di quella sera ricorda ogni dettaglio. Lei dall’altra parte del bancone che spilla birra scura illuminata dalla fiamma imperfetta di una lampada a butano che si riverbera sulle bottiglie. Maria, soffice dea slava. Trepida amante d’autunno, braccia di giaciglio che lo hanno accolto silenzioso e cupo, assieme al peso dei suoi problemi, quando alla fine del suo turno sono usciti in strada e hanno passeggiato scambiandosi storie di vecchi amanti perduti, sbronze cattive, i piccoli vandalismi delle anime stanche.
«Sì, così. Dolce…» fa Maria. Giovanni affonda in lei con la cauta tenerezza di un treno di ritorno in fine d’estate, poi lei lo spinge fuori. Si alza e si va a mettere proprio nello spigolo della camera tra la finestra e un grosso specchio ovale e resta nuda a metà strada tra la finestra e lo specchio, che moltiplica il suo profilo migliore esaltandolo e deformandolo. Lui le scosta la massa di capelli biondi vagamente ondulati e affonda il naso nella pelle sottile della sua nuca e dopo aver vinto le comprensibili resistenze del suo ano spinge il cazzo nel culo della sua amante con delicatezza da sarto. Maria, Maria, se guardi fuori dalla finestra o il proprio stesso profilo nello specchio o addirittura tenga gli occhi chiusi, serrati, lui non può saperlo. La sua schiena vibra di fusa sul suo ventre e lui ripensa al tempo buttato. Alle settimane che ha passato a coltivare il loro amore come un pezzo di terra, sopportando i suoi sbalzi d’umore, le sue allusioni, le sue follie. Sta pensando a quando ha capito che Maria è pazza, una cosa di sguardi più che di gesti, una cosa di gesti più che di parole. Anche se le parole ci sono state, eccome. Le bugie raccontate con strafottenza. I tradimenti confessati e poi negati appena il giorno dopo. I risvegli improvvisi, gli incubi, la confessione di essersi scoperta con orrore un seno di dimensioni lievemente inferiori rispetto all’altro, dio mio, quante lacrime inutili.
Giovanni s’accorge del temporale solo quando la pioggia si mette a picchiare forte sul vetro, nascondendo la città. Quello è il momento in cui entrambi scelgono di venire, pochi secondi l’uno dall’altra. Si separano. Maria si dirige in bagno. Il suo seme le cola sul retro di una coscia fino a macchiare i calzini a losanghe. Spossato, Giovanni si domanda oziosamente quale capriccio del destino ha condotto quel rivolo di sperma su quella coscia e non sull’altra, al bivio fra le due gambe di lei. Quale capriccio della sorte l’ha condotto quella notte al bar “Joska”. Di colpo, la ragazza si china e prende a vomitare nella tazza del cesso. Giovanni sorride.
«Te l’ho detto di non mangiare il sushi in quel posto lì.»
D’un tratto lei è di nuovo in piedi, poggiata allo stipite della porta che le divide la faccia a metà. Si pulisce la bocca con un gesto da belva. Giovanni capisce di essere in pericolo quando lei gli si avvicina senza un fiato. La sua pantera bionda. Con un balzo lo raggiunge – tiene una lametta da barba fra le dita – e con un gesto secco gli strappa via una parte della gola.
«E io te l’avevo detto che ti ammazzavo, stronzo.»
Il sangue prende a colargli sul petto fino a cadergli sul piede sinistro e da lì sul pavimento. La sensazione non è del tutto spiacevole ma Giovanni non può non chiedersi, un attimo prima di morire, perché mai il sangue abbia scelto proprio quella strada invece che un’altra, quale giocatore capriccioso abbia scelto per lui proprio quel sentiero fra tutti gli altri.