Mi chiamo Arthur Miller, ho quarantasette anni e sono un vagabondo. La mia è una storia come tante, fatta di sbagli e una buona dose di incrollabile fiducia nelle proprie capacità che spesso porta a risultati disastrosi, come ad esempio svegliarsi una mattina e scoprire che moglie e figlia ti hanno abbandonato, il cane ti ha disintegrato l'ennesimo paio di ciabatte e il conto in banca ha un buco così grande che il direttore gli ha dato pure un nome, come i crateri della Luna. In quel momento, senza pensare che i segnali c'erano anche se tu facevi finta di niente e li ignoravi, improvvisamente ti sono crollati addosso, come l'intonaco di un soffitto in seguito ad un terremoto. Me ne sono andato, indossando la tuta da jogging con la quale un paio di volte a settimana mi allenavo in Central Park, ho riempito la ciotola a Bill, l'ho accarezzato, quindi ho scritto un paio di righe su un foglio indirizzandolo a Tom, il portinaio. Una sorta di testamento con il quale disponevo dei miei beni e del futuro del cane. Una lettera andava imbustata, quindi l'ho fatto, inserendo dentro anche il mio nuovo iPhone, avendo l'accortezza di resettarlo. Non mi importava nulla di ciò che stava per accadere, nemmeno della sorte di mia figlia, di sicuro sarebbe stata bene, insieme a quella madre abituata al lusso e al non fare nulla. Lisa è una donna bellissima, curata e modellata da lunghe sedute dall'estetista e dai piani di lavoro del suo personal trainer. Non ci metterà molto a piazzarsi, risolleverà la testa in fretta, come ha sempre fatto in passato. Lasciando il telefono mi sono staccato dal mondo e ho ritrovato me stesso. Amministratore delegato di una grande ditta operante nel settore nautico, una bella vita e un lusso sfrenato, tutte cose che mi sembra appartengano a qualcun altro, un passato che non rimpiango e che non voglio indietro.
Quel giorno ho camminato parecchio, forse quasi cinque ore di seguito, attraversando la città e raggiungendo la periferia, poi oltre. In tasca cento dollari, con i quali ho acquistato un biglietto andata e ritorno della linea Greyhound destinazione Cleveland, la meta più lontana che potessi permettermi. Al costo di 99 e con quattordici ore di viaggio sulla schiena sono sceso in questa cittadina che conoscevo solo di nome. Possedevo un dollaro, con il quale ho preso un caffè e da quel momento mi sono ritrovato solo con me stesso. Non so perchè avessi scelto di acquistare anche il ritorno, forse per paura di fare la scelta sbagliata e darmi una possibilità di tornare. Per cosa? Per farsi sbattere in galera, passare i prossimi mesi tra un tribunale e l'altro, assistito da un avvocato d'ufficio imberbe ed incapace? Cattiva idea, anzi pessima che ho subito scartato, trovando in questi luoghi una pace che la metropoli non mi aveva mai donato.
Sei mesi oggi, un tempo infinito in cui ho vissuto come non mai, assaporando il significato della parola libertà, giornate dure ma anche di arricchimento, fatto di incontri con persone speciali. Essere un homeless non significa aver perso la dignità, la vita è capace di offrirti spunti sempre nuovi ed è fantastico provare nella vita come anche il solo sorriso di un viso possa renderti felice.
Mi sono costruito un riparo sulle rive del Lago Erie, una distesa d'acqua senza fine, forse il più bel posto del mondo in cui vivere se decidi che è il momento di fermarti per una seconda volta con l'intento di ricominciare. Tutti qui mi conoscono col nome di Mil, una storpiatura del mio cognome fatta da un ragazzino ritardato che tutti i giorni mi fa compagnia prima di tornare a casa. Col tempo sono riuscito a farmi accettare, hanno capito che non cerco rogne, solo di essere lasciato in pace: solo io e il lago.
Ma Gabriel è riuscito a squarciare il velo dell'isolamento, insinuandosi come un soffio caldo nella mia vita. I primi tempi non mancava mai di portare con se cibo e bevande, appoggiarle a terra e scappare. E' un ragazzo di tredici anni, alto per la sua età e dotato di una dolcezza senza fine. Un giorno gli ho chiesto di condividere con me il pezzo di torta fasciato in un sacchetto che aveva adagiato come al solito a breve distanza. Dopo un primo momento di titubanza si è avvicinato e da lì è partita l'amicizia che lentamente ha coinvolto familiari e conoscenti. E' grazie a lui se oggi sono un uomo nuovo, e non mi importa se un giorno lo sceriffo tirerà fuori il mio nome e lo segnalerà alle autorità. Quell'Arthur non esiste più, è morto durante quel viaggio in autobus, si è trasformato in Mil ed ora ha un nuovo scopo, quello di scrivere storie.
A Gabriel piace leggere, ma lo fa con difficoltà, così mi sono offerto di farlo io. Da allora ho letto decine di racconti, ma un bel giorno il ragazzo mi chiese di inventarne una nova, attingendo ad avvenimenti del passato. Mi sono accorto di aver fatto tanto, conosciuto persone e affrontato situazioni che viste con gli occhi odierni possono considerarsi vere avventure.
Ho iniziato a raccontare, con facilità, inventando personaggi che in realtà esistevano veramente, ma che ho voluto trasformare adattandoli. Lui mi seguiva, gli occhi sgranati, battendo le mani come un bambino ed io mi sentivo vivo, capace di donare emozioni. Ma a Gabriel questo non bastava, quelle storie erano sue e tali dovevano rimanere. Così mi portò un quaderno rosso a quadretti e una manciata di penne. Me le porse, le afferrai e sulla copertina lessi tre parole vergate con calligrafia stentata: solo per Gabriel.
Piansi, quello era il regalo più bello di sempre, qualcosa fatto col cuore e con la semplicità di una persona a cui la vita ha tolto tanto, ma che riuscirà a cavarsela, perchè credo che in lui abiti il vero spirito della bontà.
"Caro diario..." scrissi, mentre lui osservava, e all'improvviso il lago divenne casa mia, Arthur si trasformò in Mil e le storie invasero le pagine.

Tutti i racconti

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Gli occhiali (1 di 2)

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