Mi presento, sono Piero e cercherò di coinvolgervi per le prossime seimila battute abbondanti.

 

Se sentite un brivido lungo la schiena o i visceri scappate subito, siete ancora in tempo. Ma se decidete di continuare, poi non prendetevela con me, io vi avevo avvisato ed in fondo son solo pochi minuti, sai fra tutti quanti ne buttiamo nell’indifferenziato senza nemmeno accorgercene.

 

E’ l’estate del 2006 e siamo tutti in vacanza alle Baleari, io, l’appetitosa partner-moglie Paola ed i nostri stupendi figliuoli Luciano, di sette anni, e Isotta Regina Maria, di dieci. Abbiamo scelto Ibiza, dignitosamente diversa, non la minuscola Formentera dalla spiaggia albina, o la scontata scontatissima Maiorca… chissà, Minorca magari era meglio?

 

Abbiamo cuccato un gradevole villaggio-vacanze-ecomostro che copre in modo invasivo ma non devastante l’intero fianco di una collina, anche dal vero onestamente in linea con il dépliant dell’agenzia.

 

Le camere hanno tetto, letto, cesso e condizionatore reali, TV che trasmette in una lingua simile alla nostra, Paola non capisce i dettagli ma d’insieme è il noto sottofondo rassicurante; si mangia e si beve abbondantemente ed “ottimamente”, in un’area pasti tipo zona partenze dell’aeroporto John Fitzgerald Kennedy di New York (JFK), con isole self-service che ne ricordano da vicino le boutiques duty-free. C’è una generosa zona liquidi alla spina, minerali con e sin gas, bibite ogni, vino blanco e tinto che chi li prova non li riprova, ma birra che merita.

 

Presto sentiamo il bisogno di muoverci e prendiamo a nolo una magnifica ma alquanto bolsa Fiat Panda tetto apribile, la mitica praticamente-spider dei poveri ma belli. Ben presto la geniale ariosa scatoletta si ricorda quanto è bolsa, sussulta e ci pianta. Chiamiamo il venditore di souvenir-noleggiatore Juanito (“tranquillo, io sono Juanito, qualunque problema, tu chiami e io rispondo e risolvo”), che arriva efficientissimo con una trista sostitutiva utilitaria coreana. Ci rimettiamo in strada.

Girovaghiamo un tot, poi troviamo un temibile tratturo che da un punto alto della costiera sprofonda verso il mare. Con cautela ci caliamo, la triste piccola coreana efficace ci porta senza cedimenti fino a una sbarra, dove riusciamo a parcheggiare.

 

Ed ecco la spiaggia del titolo: non è riservata, non sono nudisti, alcuni non sono nudi, altri sì: le femmine hanno da zero a due pezzi di costume, i maschi ora uno ora no; tutti frammisti, con una evoluta ma poco convinta promiscuità.

La nostra mente stenta a prendere le misure, siamo impreparati e in leggera apprensione perché con i pargoli dovremo mostrare spontanea consapevolezza da subito, casomai venissimo chiamati a dar loro suggerimenti tipo quando si prende l’autobus o bisogna usare il bidet.

 

Luciano si gestisce subito a istinto, non è uno che non sbaglia, ma non si tira mai fuori, lui ci prova, in questo caso non importa se con o senza braghe.

 

Paola, che non ha mai avuto inibizioni a livello mammario, brillantemente media mettendosi in topless. 

 

Io, Piero, tengo il costume, per noi maschietti è più complicato - o tutto o niente - e mi sdraio schivo, dissimulando la mia non-nudità.

Osservo il contesto, c’è un falchetto che passeggia tutto biotto sulla linea della battigia, ha attributi ordinari e non a riposo mentre guata rozzamente il materiale intimo porto al suo campo visivo; poi l’occhio mi cade su una bionda, nuda pancia in giù, a distanza “se guardo non è sconveniente ma posso cogliere dettagli coinvolgenti, sì, un culo così merita proprio…”; ma subito lei si alza, la gravità prende il sopravvento sul promettente deretano, ed io mi ritrovo a meditare sulla caducità delle cose umane, ma solo per un istante, perché subito esplode l’affaire Isotta.

 

L’adorabile figliola, ancora acerba ma già consapevole e mentalmente complessa, affonda un “mami-papi, cosa devo fare, stare vestita o nuda?” Con risolutiva zampata la rassicuro: “vedi, amore, questo è un bel posto, metà della gente è vestita e metà è nuda, quindi va bene tutto, fai come ti senti meglio, non c’è nessun problema”.

 

La responsabilità della scelta non la turba ma deve ponderare bene, quindi passa del tempo prima che ci comunichi che allora lei si toglierà il costume.

 

A questo punto sento che devo sbloccare la situazione, più che altro la mia situazione, mi sfilo le braghe e, non molto convinto ma con gli accessori volonterosamente esposti, sparo un “bene, io mi faccio un bagno” e spedito mi immergo.

 

Effettivamente lo sciabordio immediato dell’acqua sulle parti che solitamente non provano quest’esperienza è una novità gradevole, comincio a capire i nudisti, i naturisti, persino i cani che, come avrete notato, non si mettono mai il costume per fare il bagno.

 

Ma gli altri non sono entrati e presto torno a riva, esco dall’acqua e… mi sento nudo. E’ una sensazione che ha un suo perché, dato che in effetti sono nudo. Seguo l’istinto e mi rimetto il costume.

 

Poi ovviamente mi dovrei interrogare; ma Isotta irrompe con un drammatico concitato “mami-papi, mi è entrata tutta la sabbia nella patata”. Accidenti, non me ne intendo, la patata non ce l’ho, ma i genitori hanno un ruolo, i figli da guidare e rassicurare; e mi trovo perfettamente in sintonia con Paola – che tra l’altro, per quel che ne so, di esperienza di sabbia nella patata non ne ha molta nemmeno lei: ci uniamo in un suadente e perentorio “non preoccuparti, micia, adesso entri in acqua, fai un bel bagnetto e vedrai che tutta la sabbia se ne va via”.

 

Isotta Regina esegue coscienziosamente, riemerge detersa, convinta ed appagata, e sua sponte ritiene di rinfilarsi il costume.

 

Ormai il sole sta sparendo dietro uno spuntone roccioso e per oggi abbiamo vissuto ed appreso abbastanza, e ci sentiamo tutti un pò spiaggiati.

Luciano viene fatto rivestire, Paola si infila il prendisole senza reggiseno e io le guardo in controluce ciò che prima era alla luce, che così è ancora meglio.

 

Ci avviamo alla mogia utilitaria coreana, che con rimarchevole senso del dovere (P.S.: alla fine le vorremo quasi bene) sgomma su per lo sterrato e ci riporta verso la camera, la doccia e l’abbondante non-male cena nella smisurata sala-aeroporto.

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